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Un titolo così ve lo aspettereste tra le guide paesaggistiche: sì e no. Questo di Marinucci è un testo ingannevole, si nasconde in quella sezione, ma a buon diritto andrebbe tra i saggi: sezione storia o, meglio, antropologia. Sfruttando in una veste quantomeno insolita l'espediente del manoscritto ritrovato, come un angiologo egli ripercorre l'apparato circolatorio malato di una terra ormai malata, antropizzata, inquinata, maltrattata, inframmezzando resoconti storico-naturalistici a presunti appunti di un tecnico di laboratorio, Italo Morselli, misteriosamente scomparso. La sua figura è quasi evanescente, sembra un "genius loci" ritrovatosi decisamente per sbaglio in una dimensione che non gli è più pertinente e alla ricerca del "suo" fiume, se dovesse ipoteticamente ancora esistere, un po' come lo scrittore quasi omonimo. Eppure nell'immaginario collettivo il Fiume di Roma è uno, unico e solo: dov'è? Con un'astuta sineddoche nel titolo, l'autore parla di tutto il resto di quel sistema linfatico, "relegando" il cuore all'introduzione, forse perché il tema dell'inquinamento del Tevere è ormai abusato e non rende in maniera appropriata la dimensione del problema ambientale, della "emergenza fluviale", direbbe Marinucci. Di certo nel suo personaggio non è difficile constatare un che di autobiografico dello scrittore-reporter impegnato per l'ambiente e il territorio. Con dati scientifici alla mano, esperienze dirette sul campo e fatti di cronaca all'apparenza secondari, la sua è una trenodia disincantata eppure attiva, che ci conduce lungo alvei misconosciuti come in una processione per un dio ormai svanito, di cui rimangono a stento le effigie. Uccidere un fiume è come portare all'estinzione una specie; uccidere un fiume è anche peggio: è la morte di un ecosistema unico e irripetibile.
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