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Guglielmo Tell. L'esperienza e il mito della libertà di un popolo
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1991
1 gennaio 1991
384 p., ill. , Brossura
9788877950499

Voce della critica


recensione di Sergi, G., L'Indice 1992, n. 8

In venticinque anni, tra il 1291 e il 1315, molto si decide della storia della Svizzera. Fra il patto delle tre regioni più importanti (Uri, Schwytz e Unterwald) e la vittoriosa battaglia di Morgarten contro le truppe asburgiche, scorrono anni in cui i montanari diventano ribelli, aumenta la coscienza, si definisce la simbologia dei cantoni e si affaccia il nome unitario di Svizzera. È il periodo in cui prende forma il racconto popolare su Guglielmo Tell, perché qualche evento vicino, di poco precedente e in ogni caso non anteriore al 1220, ha fornito materiale concreto per l'avviarsi esuberante e fantastico di un mito.
Alla domanda sull'esistenza o meno di Tell non si può rispondere con un sì o con un no. Diciamo che si può rispondere con un sì circostanziato. Qualcosa è esistito, Tell non è puro prodotto dell'immaginario: ma non possiamo dire se la persona sia una sola, se l'episodio sia uno solo. Quello che secondo Bergier non merita alcun credito è il nome dell'eroe: perché la sistemazione più ricca e completa del racconto si ha nel Cinquecento (nella versione del "Chronicon Helveticum" di Gilles Tschudi), quando in Francia "Guillaume" equivaleva a "quidam", a "un tale", e si prestava quindi a essere nome collettivo.
Bergier ritiene che nella figura simbolica del balestriere dell'Uri si siano cristallizzati i primi nuclei di coscienza di un popolo che, fra XIII e XIV secolo, trasferisce anche sul piatto politico-militare un'identità socialmente già assestata: l'accelerazione è dovuta agli Asburgo, dinastia tarda - si erano affermati come fedeli dell'imperatore Federico Il - che, pervenuta alla carica imperiale, localmente cerca di speculare sulla confusione fra diritti signorili dinastici e diritti regi, causando una diffusa reazione. Il mancato saluto all'odiata lancia con il cappello nella piazza di Altdorf, l'uccisione del balivo Gessler, l'episodio della mela sulla testa del figlio sono concentrati dalla memoria collettiva nel mito unificante di Guglielmo. Alcune sono probabilmente azioni reali (anche se forse collettive), mentre l'episodio della mela è quasi certamente un'aggiunta leggendaria. E infatti una vicenda tipo derivata da saghe scandinave dei primi decenni successivi il Mille, ha una fortuna più meridionale intorno al 1200 grazie a Saxo il Grammatico e probabilmente raggiunge il massimo di circolazione mentre il mito di Tell è in formazione: e lo arricchisce fino a diventarne l'elemento connotante.
Può non essere casuale che una leggenda scandinava sedimenti così bene in terra svizzera. Nel melting pot di quelle regioni si assommano gli antichi Elvezi (calati con i Celti), i Burgundi e gli Alamanni: ma nel XV secolo ha una certa fortuna una leggenda che, per spiegare il nome Schwytz, attribuisce agli Sveci= Svedesi (e non agli Alamanni, veri protagonisti) una calata fra le Alpi in seguito a una carestia. Negli anni di lenta formazione di un'identità nazionale, fra medioevo ed età moderna, è benvenuto qualunque elemento che serva a dare rilievo a una rivendicata diversità rispetto alle popolazioni (o, meglio, alle dominazioni) circostanti: ecco che all'insediamento alamannico - effettivamente decisivo per gli equilibri etnici della regione - si preferisce attribuire all'origine più esotica e lontana.
Sono altre due le anime del libro di Bergier, che mette al servizio del settimo centenario della Confederazione elvetica la sua ricca esperienza di storico economico-sociale formatosi alla scuola di Braudel: la prima è la volontà di scavare nello specifico della civiltà svizzera; la seconda è l'analisi del mito di Tell nella sua autonomia a prescindere dalla verificabilità dei fatti tramandati. Per fare della sua opera anche un libro di storia della civiltà, Bergier dedica molte pagine al contesto storico: tutta la storia precedente della regione, l'apertura del valico del S. Gottardo fra XII e XIII secolo, la caccia come grande "passatempo collettivo" e non come attività principale di un popolo di contadini e di allevatori, il commercio come attività integrativa, le comunità montane spontanee (non condizionate n‚ da schemi comunali italiani n‚ da modelli consuetudinari francesi), l'alimentazione con molte proteine e con poco vino. Combinando i diversi fattori il libro si spinge a tentare una definizione anticonformista del cosiddetto "conservatorismo" alpino, che sarebbe da interpretare non in termini strettamente politici, ma come atteggiamento di preservazione di un equilibrio duramente conquistato: di questo equilibrio è nemica soprattutto la componente più arbitraria del potere - quella signorile-feudale - perché importa estraneità e dissonanza.
La storia del mito di Tell ha tempi significativi: inizialmente è memoria locale; nel volgere di un secolo si ingrandisce, purificandosi degli elementi più specifici ma arricchendosi di ingredienti sovralocali più adatti a una saga leggendaria; dal Cinquecento in poi le manipolazioni si moltiplicano sia localmente (élites e popolo fanno letture contrastanti dello stesso mito), sia a livello internazionale (su uno scenario condizionato dalla mobilità dei mercenari svizzeri e dai loro racconti). Il percorso delle letture colte (dal cosmografo cinquecentesco André Thevet, a Schiller, a Rossini, al pionieristico regista danese Viggo Larsen, ai più noti film del nostro secolo) ci fa sfiorare le nostre convinzioni più scontate, incrinandole, e ci conduce fin dentro il Guglielmo Tell di ciascuno di noi, dei nostri ricordi d'infanzia o della nostra ideologia: non c'è nulla da cancellare, basta riconoscere lo status di oggetto di ricerca non solo a un complesso evento concreto, ma anche al suo consolidarsi progressivo in un nome e in una leggenda.

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