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Venezia è stata per circa un millennio la capitale e l'anima di uno Stato nato fuggendo dai barbari sulle isole di una laguna, cresciuto sul mare, diventato ricco e superbo e finito dopo una lunga e graduale agonia. Venezia è una città-museo, viva e morta al tempo stesso, solitaria e asfissiata dal turismo di massa, luminosa e imbalsamata. Venezia sarà per sempre un'idea, un ideale, un sogno minacciato dalle acque, un generatore di stati d'animo euforici e melanconici, destinata a reimmergersi nelle acque dalle quali è nata. Francesco Guardi non è certo il suo figlio più noto, neanche fra i pittori, schiacciato dai grandi del passato e dai grandi suoi contemporanei - Canaletto, Bellotto - ma è un figlio onesto e devoto, che a Venezia dedicò la vita e l'arte. Visse in laguna dal 1712 al 1793, sufficientemente presto per nascere e per vivere da veneziano libero e sovrano e giusto in tempo per non dover morire da austriaco. Guardando le sue opere mi colpiscono due aspetti: il suo essere ora pittore d'occasione capace di raccontare storie di dogi e di papi in un'epoca che stava sgretolando il potere di entrambi ora vedutista non superiore o inferiore a Canaletto, ma semplicemente diverso da lui, e capace di vedute di Venezia al tempo stesso realistiche ma non reali e solidamente visionarie. Francesco Guardi, ovvero vivere sulle soglie della fine di un'epoca facendo finta di nulla. "(...) dal vaso di Pandora della sua fantasia escono a fiotti invenzioni nuovissime, rimeditazioni emozionanti, commoventi scoperte di forme e di luoghi immaginari mentre i luoghi noti vestono gli abiti di un fantasmagorico universo di luci cristalline, di ombre cupe, di volumi che si sgretolano" (pp. 26-27). Francesco Guardi, ovvero morte a Venezia. Ma senza fretta e con molto stile.
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