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Appena mi sono apprestato alla lettura non conoscevo l'autore. Sapevo che aveva vinto il nobel ma nn sapevo altro. All'innizio non conoscendo lo stile dello scrittore rimani sospeso e di domandi che stile abbi questo autore. Più che lo leggi più ti accorgi che il nobel è meritato. Suspanse fino alla fine lo leggi molto velocemente e riesce facilmente a farti pensare sul singificato del libro e sul messaggio che l'autore vuole darti. Uno ddei più bei libri che abbia mai letto. Consiglio questo libro, sconosciuto ai più, ma che meriterebbe sicuramente più attenzione
libro di impareggiabile bellezza, una delle migliori opere mai scritte, un nobel più che meritato. ci si trova davanti ad un capolavoro che descrive le peripezie dell'anima di un uomo alle prese con il suo passato come solo Dostoevskji avrebbe saputo fare meglio. raggiunge picchi poetici che solo un genio può scrivere; anche la più noiosa delle descrizione si ammanta di quest'aura di decadente ed oscuro lirismo. da leggere assolutamente
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1987)
recensione di Orsi, M.T., L'Indice 1988, n. 3
Anche "Il grido silenzioso" (una bella proposta alternativa al titolo originale, più sofisticato ma poco comprensibile per il lettore straniero, che suonerebbe come: "La partita di calcio del primo anno dell'era Man'en*) propone uno dei temi dominanti nel mondo simbolico di Oe Kenzaburo: la presenza di un bimbo anormale, che qui viene assunta come una realtà periferica anche se di importanza vitale per la struttura del racconto. La minaccia rappresentata dalla esistenza del bambino, il rimorso per averlo rifiutato e rinchiuso in un istituto per ritardati mentali, sono infatti presenti lungo tutto l'arco della vicenda. In essa si mescolano altri elementi che già siamo abituati a ritrovare nelle pagine di Oe; e se questo può essere apprezzato, come una riprova della indubbia capacità dello scrittore di reinventare sempre nuove situazioni sviluppandole da un comune punto di partenza, è inevitabile che provochi anche una certa insoddisfazione, già registrabile al momento della presentazione dei personaggi principali. In Mitsusaburo ritroviamo la figura dell'intellettuale in conflitto con la realtà, ricco di qualità antieroiche riscontrabili anche nei difetti fisici, nelle nevrosi, nella esagerata tendenza all'introspezione e al vittimismo, a tratti soffocato dalla vergogna per il proprio non agire ma senza neppure una precisa volontà di scegliere se vivere o morire; solo di qualche anno più maturo dei giovanissimi studenti universitari, frustrati e delusi, che popolano le pagine dei primi racconti di Oe. Il fratello minore, Takashi, viceversa è il personaggio attivo e vitale, a sua volta incapace di operare una scelta che non sia quella della azione violenta e disperata che lo porta consapevolmente all'autodistruzione, già anticipato e descritto, semmai con maggiore incisività, in "Seventeen* (1961) o in "Warerano jidai" ("La nostra epoca", 1962). Il tutto calato in una storia complessa che fa uso di aperti riferimenti alla realtà del Giappone contemporaneo (le dimostrazioni degli studenti contro la ratifica del trattato giapponese-americano, nel 1960; il problema, appena sfiorato, delle minoranze coreane in Giappone). Ad essi si affiancano elementi vistosamente drammatici, come la nascita del bimbo deforme, l'incesto, la violenza sessuale, la rivolta del villaggio e ancora miti e leggende, folclore e magia, inseriti in una cornice ideale come quella dello Shikoku, isola ricca di riferimenti storici e culturali; in essa, i due fratelli Nedokoro vanno alla ricerca della propria identità e delle radici della famiglia, ma soprattutto tentano di ritrovare le tracce di una rivolta, guidata nel 1860 (primo anno dell'era Man'en) da un antenato, con il quale idealmente Takashi si identifica. In questa capacità di assemblaggio sta la forza maggiore del romanzo, che procede ricco di azione, avvincente, sostenuto da una tensione interna ben calibrata fino alle ultime pagine, anche se il ricorso ad un linguaggio ricco di metafore e similitudini sembra essere più un ornamento esteriore che non parte vitale del complesso mondo di simboli e immagini che aveva costituito il punto di forza della prosa di Oe.
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