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recensione di Isselstein, U., L'Indice 1998, n. 1
Le notevoli virtù e i difetti tutto sommato minimi di questo libro nascono dalla stessa radice: ci troviamo davanti a un ibrido fra scrittura critico-letteraria, storico-culturale, divulgativa e biografica, con elementi anche autobiografici. Non c'è da stupirsene: l'autore, che possiede buone doti narrative, ha studi filologici alle spalle che nel poco tempo libero continua a coltivare. Ma è anche il più importante editore letterario tedesco del secondo dopoguerra, amico (nel caso di Uwe Johnson addirittura erede) di Max Frisch, Martin Walser, Hans Magnus Enzensberger, Hans Erich Nossack e Peter Weiss, amici che gli furono preziosi consiglieri quando, dopo la morte di Peter Suhrkamp nel 1959, divenne socio, amministratore e responsabile unico dell'omonima casa editrice. Nel giro di un ventennio la Suhrkamp passò da una quindicina di titoli a trecentocinquanta all'anno, non contando quelli delle case editrici prestigiose (come l'Insel Verlag) nel frattempo acquistate.
La qualità e la forza d'impatto degli autori Suhrkamp (limitandoci all'ambito di lingua tedesca, si pensi soltanto - oltre ai già nominati - a Hesse, Rilke, Robert Walser e Brecht, e fra i saggisti Benjamin, Adorno, Habermas) erano tali che si parlò e si parla tuttora di "cultura Suhrkamp", come in Italia si parla di "cultura Einaudi". In un personaggio di tale calibro una piccola dose di narcisismo è il sale del racconto, specie quando sa elevare i fatti suoi al livello della storia. Passino dunque le sue ripetute esemplificazioni spesso divaganti sugli autori della sua casa editrice, prima di tutti Brecht. E può anche essere una divertente informazione ambientale che un grande editore trovi il tempo per scrivere soltanto durante i suoi regolari soggiorni in una clinica di digiuno (mentre Goethe scriveva, anzi dettava i suoi romanzi nei luoghi termali boemi, tutt'altro che digiunando) e che questo digiuno gli procuri l'euforia necessaria per la "giocosa serietà del testo", ma l'informazione supplementare che si tratti della "clinica per cure dietetiche Buchinger di Überlingen" ci sembra giovi più che altro alla clinica stessa.
Ma lasciamo da parte questi piccoli vezzi. Il successo della casa editrice sta a dimostrare la validità della scommessa di Unseld, formulata in un'intervista del 1987: "Qualità e null'altro che qualità è ciò che oggi conta". Non sorprende dunque che fra i tanti editori di Goethe, il preferito (che accanto a Goethe e Schiller domina due terzi del testo) sia l'ultimo, Johann Friedrich Cotta, il "Napoleone fra gli editori", che con Goethe, Schiller, Herder, Wieland, Hölderlin, Jean Paul, Schelling, Fichte, Tieck, Hebel, i fratelli Humboldt e Schlegel vantava il Gotha culturale dell'epoca fra i propri autori. Ventitreenne dottore di giurisprudenza, accingendosi quasi controvoglia a subentrare nella malandata ditta paterna, nel lontano 1787 Cotta aveva puntato su un'analoga scommessa: "Non vorrei pubblicare altro che buoni libri, e mi piacerebbe vederli sempre stampati in belle edizioni e su bella carta".
Parliamo dunque delle virtù di questo "buon libro", un'insolita biografia goethiana riccamente documentata, che traccia al contempo una storia della nascente editoria moderna. L'autore intercala analisi approfondite di singole opere del poeta, delinea la sua teoria estetica e la sua prassi critica, i cui criteri Unseld ritiene validi ancora oggi. Negli "excursus" racconta e analizza alcuni incontri personali, cruciali per vita e opera (Schiller, Napoleone, Charlotte von Stein, Christiane Vulpius). Il tutto è arricchito da quadri d'epoca con i ritratti di numerosi personaggi e del poeta stesso, come ad esempio nella descrizione della strabiliante capacità di Goethe di dettare le sue opere "quasi leggesse da una pagina già scritta nella mente".
Dobbiamo questa descrizione alla penna di Schuchardt, uno dei segretari di Goethe, parte dell'équipe, o meglio della formidabile macchina produttrice, del tardo Goethe che Unseld ci dipinge a fresco: "Che io sappia, non c'è stato altro scrittore, né prima né dopo Goethe, che si sia circondato di un gruppo di assistenti tanto numeroso - erano un servitore, tre segretari e quattro 'amici' consiglieri espertissimi in campi diversi -, stabilendo un rapporto di così intensa collaborazione". Il primo "Groáschriftsteller" dunque, mai più uguagliato.
Sì, perché il Goethe che incontriamo in queste pagine non è soltanto il grande poeta che conosciamo, ma anche l'oculato curatore dei propri interessi. Avere le opere di Goethe nel proprio catalogo portava ai suoi editori più prestigio che vantaggi economici, perché vendevano relativamente poco e costavano molto: "La liberalità nei confronti degli editori non è cosa da lui", aveva avvertito Schiller, che faceva da intermediario con Cotta. E l'editore moderno cita più volte ammirato la divisa del poeta: "Gli affari vanno condotti in modo astratto, "non* "umano", non cioè secondo simpatia o antipatia, passione, benevolenza, ecc.: così si riesce a ottenere di più e più in fretta. Laconici, perentori, concisi". Catturato dal proprio personaggio, Unseld gli dà ragione, contrapponendosi a Jeremias Gotthelf che nel 1842 aveva scritto un romanzo in cui "Geld "e" Geist" si conciliavano: "Io non credo che esista una conciliazione possibile tra denaro e spirito, neppure in ambito editoriale; è vero piuttosto che il lavoro editoriale vive delle tensioni che si generano tra questi due poli".
Unseld ci trasmette con vivacità la situazione piratesca in cui si muovevano intorno all'Ottocento autori e editori, in un mercato invaso da edizioni contraffatte; quel mercato, la cui lenta regolamentazione legale sarebbe culminata con l'introduzione dei diritti d'autore cinque anni dopo la morte di Goethe, che, insieme ai suoi editori Göschen e Cotta, fu fra i pionieri di questa lotta. Per primo chiese e ottenne, infatti, criticato da non pochi per la sua avidità, una normativa speciale da tutti i trentanove stati della Federazione tedesca per la "Ausgabe letzter Hand" delle sue opere. Il che effettivamente gli permise di alzarne ulteriormente il prezzo, ma anche di garantire la correttezza del testo, redatto faticosamente con l'aiuto della già citata équipe in anni di lungo lavoro.
Il confronto fra l'edizione Adelphi e quella tedesca (Insel Verlag) di un libro sull'editoria dà occasione ad alcune riflessioni sulla qualità del lavoro editoriale oggigiorno ancora possibile. Ambedue sono bei libri, vestiti con quel'eleganza che ci si aspetta dalle rispettive case editrici. Ma nemmeno Unseld, il principe degli editori tedeschi, è riuscito a ottenere, nella propria casa editrice, una revisione redazionale a regola d'arte. Nelle "Tag- und Jahreshefte" di Goethe si trova un'annotazione sulle "Affinità elettive", sulla cui sostanza tragica il poeta era sempre stato estremamente restio e misterioso. Goethe parla di una "profonda ferita passionale che guarendo rifiuta di rimarginarsi" e di "un cuore che teme di "guarire"", mentre al contrario questo cuore, nell'edizione italiana, teme di "godere". Ma le traduttrici non ne sono responsabili, bensì il nutrito team di lettori-redattori nominato nell'introduzione che non si era insospettito trovando l'insensato "genieáen* ("godere") al posto del "genesen* originale.
Più significativo ancora per la disinvoltura editoriale ormai imperante è l'incoerenza dell'apparato critico-bibliografico dell'edizione tedesca, diviso in due parti: "Anmerkungen* e "Nachweise", note e indicazioni delle fonti. A parte il fatto che troviamo delle note anche lunghe nelle "Nachweise", sono numerose le citazioni nel testo di cui non si trova l'indicazione della fonte. Niente è più irritante di una prassi editoriale segnata dal caso: si ha l'impressione di trovare le indicazioni e le note che Unseld ritrova fra le sue carte, e il resto no, che il lettore si arrangi.
Non si può dunque rimproverare all'Adelphi di aver messo un po' di ordine tagliando la testa al toro: l'edizione italiana ha cassato completamente il capitolo delle "Nachweise" e ha ridotto a metà circa il foltissimo apparato di note specialistiche, spesso poco interessanti per il lettore italiano. Col risultato di una maggiore chiarezza editoriale. Ma, dato che ha ripreso tale quale la bibliografia finale, ne riproduce anche le notevoli lacune, aggiungendo soltanto la bibliografia delle traduzioni italiane delle opere di Goethe, ma non quella dei molti altri autori citati nel testo, come ad esempio Walter Benjamin. Dispiace invece di non ritrovare nell'edizione italiana le numerosissime illustrazioni (mantenute sono solo le 16 tavole a colore) - ritratti, silhouettes, riproduzioni di manoscritti autografi, copertine, pagine esemplari delle prime edizioni - che contribuiscono in modo essenziale al fascino dell'edizione Insel, calando il lettore nella magia di un'atmosfera settecentesca.
La versione italiana è ottima, per quanto anche a queste brave traduttrici sia successo, sempre a proposito delle "Affinità elettive", qualche incidente di percorso. Goethe aveva terminato il romanzo durante una delle sue lunghe villeggiature termali a Karlsbad, da dove scrive a Cotta il 26 luglio 1808: "Diesmal habe ich meine Muáe und meinen Humor genutzt um einen Roman zu endigen" (Questa volta ho usato i miei ozi e il mio umore per terminare un romanzo) mentre, nell'edizione Adelphi, le traduttrici gli fanno usare - ahimè - il suo "estro" e la sua "vena umoristica" (pp. 273 e 274). Avessero consultato il grande dizionario dei fratelli Grimm, il cui uso non si raccomanda mai abbastanza a studenti e traduttori alle prese con testi classici, questo non sarebbe successo.
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