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Anno edizione: 2006
Anno edizione: 2016
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Sono stato costretto a leggere questo saggio per un esame universitario, ma dopo le prime pagine ho capito subito che mi trovavo davanti a qualcosa che avrei dovuto leggere necessariamente. Attraverso documentati e crudi esempi storici, l'autore esamina a fondo il problema della giustizia, mettendo in luce come essa sia labile, spesso soggettiva, spesso impossibile o semplicemente introvabile per la nostra concezione. Un'opera che merita di essere letta da chiunque sia appassionato di storia, di giurisprudenza, di filosofia o in generale di problemi umanitari.
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Non si riflette forse abbastanza sul fatto che la giustizia penale internazionale si sia sviluppata in un'epoca in cui la sfiducia nei confronti della funzione repressiva del diritto, in particolare nei confronti della dimensione retributiva, ha raggiunto il suo apice. Il che configura un inquietante paradosso. Anche il saggio postumo di Federico Stella fornisce conferma a questo paradosso. L'autore, in un notevole lavoro di qualche anno fa, Giustizia e modernità (Giuffrè, 2001), si era fatto interprete in Italia di quel mutamento di paradigma dalla giustizia retributiva (che pone al centro dell'attenzione i colpevoli e ne ricerca la punizione adeguata) alla giustizia riparatrice (che si concentra invece sulle vittime). Il fatto che, in ambito penale, la definitività delle sofferenze patite (e il presente libro passa in rassegna tutto il repertorio delle tragedie storiche del Novecento e le correlate meditazioni sul male) renda del tutto improponibile l'idea di una riparazione dei torti, porta l'autore a sancire la disumanità e l'inefficacia del diritto penale. Unico antidoto contro la riduzione della giustizia a mera ideologia, un diritto basato sulla prevenzione (quello che Stella chiama "modello Barak" dal nome del presidente della corte suprema israeliana).
Al ripudio del diritto penale si accompagna lo scetticismo nei confronti delle teorie costruttivistiche della giustizia, che hanno tenuto banco (da Rawls in avanti) nei dibattiti dei filosofi liberal: a esse si rimprovera l'eccesso di astrazione, per cui al centro non è la persona ma l'individuo razionale, moderatamente egoista e affetto da disciplinate emozioni, come si conviene al detentore di diritti in una società civile. Se è lontano dalle filosofie razionalistiche della giustizia degli ultimi decenni, Stella è invece vicino, fino ad adottarne integralmente le convinzioni, ai critici radicali della giustizia del secondo Ottocento, in particolare Dostoevskij e Tolstoj. "Uomini corrotti pretendevano di correggere altri uomini corrotti e credevano di arrivare allo scopo per via meccanica" sentenzia Necliudov in Resurrezione. E nei Fratelli Karamazov Dostoevskij afferma che "non può esserci sulla terra chi giudichi il delinquente, se questo stesso giudice non abbia prima riconosciuto che egli pure è un delinquente come quello che gli sta davanti e che del delitto di questi egli ha forse più colpa di chiunque altro". Coloro che si arrogano il diritto di giudicare non hanno dunque maggiore legittimità dei criminali. Una tesi alla base di ogni forma di perdonismo.
Tuttavia non sarebbe improprio ricordare, quando si assumano a principi ispiratori di una filosofia del delitto e della pena le meditazioni di autori come Dostoevskij e Tolstoj, che le loro convinzioni erano maturate a contatto (per esperienza diretta) con il sistema giudiziario di un'autocrazia dispotica e corrotta. È scoraggiante rilevare che le stesse tesi continuino ad applicarsi alle pratiche giudiziarie di uno stato costituzionale dei diritti. E ancora più sconfortante rilevare che esse appaiono ancora, in questo testamento spirituale, condivisibili a un giurista e avvocato cattolico con una larga esperienza del funzionamento del sistema giudiziario italiano, che alle sue deficienze non sa rimediare se non rifugiandosi in un pur nobile perdonismo di stampo tolstojano.
Pier Paolo Portinaro
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