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Un testo è un testo, un confronto umano è un umano confronto. Due parenti possono anche somigliarsi fisicamente e non essere in confidenza tra loro. Non sono stato presente alle conversazioni di Massimo Sannelli sulla poesia religiosa, ma non ho difficoltà ad immaginare e a credere che il clima di questo resoconto - per quanto vivo - sia un fortissimo raggelamento del modo che Sannelli ha di porsi di fronte alle persone: a voce bassa, pudica, confidenziale, accompagnata da parole e gesti che evitino accuratamente di ferire o mettere a disagio chicchessia. Massimo sa creare un clima di complicità attorno a sé quando contempla in filigrana i misteri della vita. («Cantarena», 30, 2005)
Quando l'autore non vuole essere né apparire, quando il silenzio è portavoce di ricordi, quando un "dove" diventa un "come", nascono i Sonetti di Massimo Sannelli. Grazia e mestiere nell'architettura poetica esaltano squarci di memoria, fotografie mentali, colori tenui tornati vividi: Sannelli insiste su alcune parole, le evoca, le chiama, le lascia agire e poi le riprende, quasi nel timore di abbandonarle. L'emozione dell'autore diventa lezione: non esiste luogo né tempo quando si Sente. Si scrive tanto (a volte troppo) sul verso, anziché lasciarlo agire liberamente ed ogni verso, scritto in clinica, è la cura di Massimo.
L’ansia vertiginosa e corrosiva dei versi di Massimo Sannelli prepara continuamente, in ogni luogo, un sottile, oscuro, segreto gioco subliminale, teso sempre a ribadire l’indicibilità degli eventi estremi dello spirito, e a ricordare, anche, l’impossibilità di giungere (da parte del poeta e del lettore) ad una qualsiasi ipotesi di “comunicazione”: ed è un gioco superbamente sonoro che, però, non ha nulla a che vedere con la tradizionale e banalizzante “musicalità” di certa scrittura poetica (quella, per intenderci, afflitta dal soporifero effetto-cantilena del ronron). Il suono alto e maestoso che erompe da questi testi dice tutta l’ampiezza miracolosa di una visione vicina alla soglia dell’estasi e dell’abbandono; e tale stordente visione sa circondare ogni immagine di una musica così acuta da sfiorare l’inascoltabilità: una musica che pitagoricamente appare come un’ accecante, superiore manifestazione dell’Idea stessa del suono. Superato, dunque, il limite dell’egoico e della “personale” visione, spogliato del sé, dolcemente abbracciato dalla Notte dell’abbandono, colto, finalmente, dal buio della perdita e dello smarrimento mistico, il poeta si lascia cadere nella rete immensa di una totale sparizione, contemplando, infine, la meraviglia dell’ Uno e del Tutto. ("Cronache del Mezzogiorno", 2 gennaio 2006)
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