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Si fa un uso sempre più largo dei documenti figurativi, anche fuori dall'originario ambito di pertinenza. E la cosa mette in sospetto gli storici dell'arte, che a volte sembrano gelosi come liceali quando vedono attorno alle compagne più carine gli studenti delle classi superiori o di altre scuole. Sempre torto non hanno, però. Ad andarci di mezzo non è solo la particolare ragione espressiva di quei documenti, condizionante per chi se ne serva come testimonianze di fatto; ma la consapevolezza o meno che le opere d'arte (immagini-oggetto non solo nel medioevo) hanno un corpo fisico, nacquero per luoghi e funzioni particolari. E invece c'è chi le chiama in causa come se fossero davvero equivalenti alle loro riproduzioni, se non a particolari fotografici. I molteplici e concreti casi materiali di cui è fatta la storia dell'arte rischiano di essere riversati in una massa iconica omogenea, con cui è più facile confrontarsi. Sicché quelli che in alcune discipline passano per documenti nuovi rischiano di essere letteralmente tali, perché in piena servitù di fotocopiatrici e scanner.
Nessuno storico dell'arte sarà stato sfiorato da sospetti simili leggendo le tante pagine dove Prosperi si occupava di temi figurativi. Che si trattasse di catechismi figurati, di dipinti per "compagnie di giustizia", di topografia del sacro, della coscienza religiosa di Lorenzo Lotto, l'autore ha sempre affrontato quei temi non come terreno di bonifica disciplinare, ma come aspetti naturaliter propri del mestiere di storico. A maggior ragione perché il periodo da lui maggiormente frequentato è quello che vide l'avvento della stampa e di nuovissime forme di propaganda, dunque di mezzi figurativi di più veicolabile e smaterializzata natura. Mai, però, le illustrazioni erano entrate così dentro alla forma del saggio. Al punto che mentre si può leggere perfino Longhi in un'edizione priva di illustrazioni (ma conoscendo bene le opere di cui parla, altrimenti è un disastro), questo è un libro che non si potrebbe leggere senza le illustrazioni.
L'indagine, questa volta, riguarda in maniera più diffusa i fatti figurativi. Ruota attorno a un'immagine innanzitutto mentale, quella della Giustizia, ma che ebbe bisogno di cristallizzazioni figurative e simboliche, attraverso "formule" nel senso classico di Warburg. Si sa quanto, di Burckhardt, stia dietro Warburg; e cambiando tutto quello che va cambiato, si potrebbe dire che anche al centro di questo libro rimangono le tre "potenze" burckhardtiane: stato (in questo caso sarebbe meglio dire sovranità), religione, cultura. E, al modo di Warburg, anche per Prosperi le immagini sono deposito di memoria, modi di persistenza o di risorgiva culturale. Si capisce perché le illustrazioni entrino nella tessitura di ogni pagina come forse in nessun precedente scritto di Prosperi.
Chi ne legge gli interventi su "Repubblica", sa quanto Prosperi si interroghi sul presente, conosce il modo non comodamente causalistico con cui guarda la superficie dell'oggi con le lenti del passato. Anche questo libro si apre e si chiude sul presente. E uno stimolo a considerare il definirsi simbolico e figurativo di qualcosa che sta al centro di ogni forma di aggregazione sociale (ubi ius, ibi societas) sarà pur venuto dall'odierna "visualizzazione continua dei riti della giustizia", da "quella forma televisiva del processo" che domina la giustizia americana. Uno storico preoccupato solo di saldare un anello a un altro sarebbe andato a cercare gli incunaboli "visivi" di tale situazione in una prima fase della cultura di massa, come certe illustrazioni di fine Ottocento (e non sto dicendo che non meriti farlo). Ma questo libro di mole ridotta è un grande libro di sintesi: non nel senso banale della panoramica, ma perché scandisce condizioni distintive fondamentali, in ordine ai tempi diversi e alle culture. Le immagini entrano in una sintesi così intesa perché, in apparenza, sono laconiche. In realtà, traversano le barriere linguistiche, non quelle culturali. E allora la sintesi diventa una rifrazione prismatica.
C'è però un baricentro. È l'immagine con cui la Giustizia si manifesta simbolicamente, soprattutto nel mondo anglosassone: bendata. Se ne può riconoscere il punto di origine in un'illustrazione della Nave dei folli di Sebastian Brant (Basilea, 1494). La benda nasce come attributo negativo. La cecità è quella soggettiva del giudice, non ancora quella che impedisce di vedere qualcuno con speciale riguardo. Come avvenne una mutazione così radicale? E tanto rapida ed efficace che occorre pensare a qualcosa di già vivo e presente nell'armamentario simbolico. Accantonata la Sinagoga bendata delle cattedrali gotiche, Prosperi punta sulla contaminazione con la figura diffusissima di Cristo bendato, che è vittima della cattiva giustizia e ne promette un'altra.
La contaminazione con la "formula patetica" di Cristo corrisponde al grande alveo entro cui scorrono i rapporti fra immagini e pratiche della giustizia, fra sovranità e società cristiane. Ma in questo discorso storico non entrano solo le immagini di propaganda. Ci sono anche dipinti con le storie della Passione come quelli mostrati ai condannati a morte. Ed è un'altra faccia della Giustizia che si rivela. La diversità dei casi basta solo ad accennare a quanto questo saggio si distingua da una ricostruzione iconografia. Ma a differenza di certi studi iconografici dove le immagini sembrano il ricalco di quanto già esiste ed è raggiungibile su altri scaffali dell'universo culturale, l'attenzione è sempre rivolta all'insostituibile condizione antropologica di pensare per immagini.
Non sarà facile rimettere in discussione il passaggio di senso che l'attributo della benda trovò nel Cristo della Passione. D'altra parte, la Giustizia bendata non si incontra in tutte le società cristiane. Ci si può allora chiedere di nuovo se, in misura parziale, non siano entrate in gioco le Sinagoghe dei portali gotici, come quella indimenticabile della cattedrale di Strasburgo. La sua cecità è negativa (e pertanto non fa da anello mancante, d'accordo), ma il suo impatto visivo è "eroico": sprigiona tutta la forza iconica di una grande immagine tridimensionale, già staccata dalla parete, posta in uno spazio rituale. La domanda riemerge a lettura finita, guardando la copertina davvero ben scelta, con il Ludibrio di Cristo nel pretorio di Gaspare Celio (ma su indicazioni del gesuita Valeriano), che in coppia con un altro fantasma bianco di Cristo sta nella chiesa del Gesù, a Roma. Due dipintiu entrati nei ricordi degli storici dell'arte da quando Federico Zeri ne parlò in Pittura e Controriforma. Ora, proprio per il Cristo bendato che serve da perfetta sintesi di questo libro, chi ebbe in dono la più incredibile memoria visiva evocava la "liscia eleganza di una Sinagoga di un portale dei tempi di mezzo". Solo un accostamento colto, da "museo immaginario"? O il riflesso inavvertito, perfino dalla memoria di Zeri, di come una soluzione figurativa "forte" possa avere aiutato a nascere un'immagine di senso diverso?
Massimo Ferretti
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