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Tanto a lungo ignorata o considerata “fuori tempo” perché non direttamente ascrivibile al canone ermetico o avanguardista, quanto poi apprezzata e studiata, l’opera poetica di Giorgio Caproni sembra segnata da un destino critico paradossale: se l’autore è rimasto avvolto per tanto tempo nell’ombra, successive letture ne hanno moltiplicato all’infinito i possibili volti. Primo merito del volume di Baldacci è quello di individuare uno di questi volti, il più problematico, interrogativo, dolente, e di seguirne il fil rouge dagli esordi giovanili fino alla produzione della maturità. In un’opera inevitabilmente vasta, non fosse altro che per la sua estensione temporale (dagli anni venti fino al limite, appena sfiorato, dei novanta) viene così disseppellita, pagina dopo pagina, una traccia unitaria.
Il dato biografico e quello poetico scorrono in parallelo: la formazione musicale da un lato e poetica dall’altro, sotto il segno dei siciliani e toscani delle origini, di Carducci, Pascoli, ma anche di Saba e Ungaretti; gli anni della guerra e della Resistenza; il trasferimento a Roma, città d’esilio, nell’alternanza di insegnamento, traduzione, collaborazioni.
Se viaggio e musica sono le due principali chiavi con cui tentare di disserrare il mondo caproniano, in entrambe risuonano accenti guasti: la distonia in un caso, la discesa agli inferi nell’altro. “L’analogia fra parola e musica, che Caproni scorge e sottolinea, diventerà poi nella sua opera il costante tentativo di andare oltre le parole, per ‘pensare in musica’. Quella caproniana non è comunque mai una melodia orecchiabile, una musica facile, che si compiace di sonorità morbide, rotonde, distese; essa risulta per converso aspra, risentita, tesa spasmodicamente sino a sfiorare (e a tratti toccare) una continua lacerazione”.
La poesia caproniana concerta dunque con le dissonanze eliotiane, incrocia l’universo di Beckett e Kafka, con voce via via più rotta, spigolosa, decentrata. Quella che da altri è stata letta come nichilistica abdicazione viene da Baldacci interpretata come resistenza estrema di una parola poetica che è “un ponte lanciato verso l’altro (incluso l’altro che ciascuno porta in sé), la cui natura è dialogica, sociale, non aristocratica, solipsistica, autoreferenziale”, “esigenza, in primis civile e morale, di interrogare la propria anima, di riflettere sulla propria identità”.
Recensione di Miriam Begliuomini.
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