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La terza raccolta di Catelli, che dal 1992 pubblica racconti, in piccoli libri, è la sua prova più impegnativa. Ha un titolo stranamente disciplinare, Geografie, che converrà tener presente durante la lettura per sfruttarne la valenza etimologica, di terra e descrizione; ed esce in una collana dal titolo ambiguo, "Pretesti", collana orientata verso l’attraversamento di linguaggi e forme, in opere spesso di poesia o in scritti di riflessione e di confine: come queste prose, che alla poesia alludono, per la concentrazione espressiva, e tuttavia della narrazione – o addirittura del romanzo, anzi di svariati romanzi – disseminano a ogni pagina densi nuclei germinativi (pre-testi, appunto). Sono infatti 27 pezzi brevi, ciascuno dei quali rappresenta, o per dir così descrive, un frammento, un passaggio di vita, una porzione di pensiero, con incipit bellissimi, dove sembra presupposto un racconto che qualcuno ha già fatto (forse Tabucchi nella sua prima maniera? o Kafka?) e si prelude al racconto che nessuno farà: "Non siamo più tornati al Château Tremblant, ed è un peccato" oppure "Il treno era in arrivo, lo sapevo con certezza" o anche, enigmatico, "Esiste davvero, il boia?". Non seguono poi né eventi né intrecci. C’è invece un personaggio fisso che al Château Tremblant siede in coppia sotto la pergola o altrove attraversa la Piazza della Rivoluzione, è alla stazione e sul treno, è a Sarajevo e a Pankrac, a est e nel sud. Di nome in nome, di pezzo in pezzo, il movimento del viaggio costruisce e sostituisce quello narrativo. Ma dappertutto si configura una situazione in sostanza immobile, nella quale appare inceppato il meccanismo dell’azione e dell’affabulazione. Filo conduttore è la voce narrante, che s’indovina autobiografica. Giovanni Catelli, nato a Crema nel 1965, laureato in legge ma senza vocazione avvocatesca, ama dichiararsi viaggiatore e sradicato. Ha una voce ben riconoscibile, che s’alza all’incrocio fra letteratura e vita, benché rifiuti lo psicologismo. Ottiene i risultati più efficaci quando fa sentire lo spavento del buio e della morte, che assediano la banalità del vivere, quando lascia intravedere nel quotidiano la materia di una grandiosa allegoria del niente. È un narratore padano, che si considera praghese. (L.D.F.)
scheda di De Federicis, L. L'Indice del 1999, n. 02
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