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Potrà sembrare un paradosso, ma leggendo la "Genesi" mi ha colpito la scarsità di elementi veramente religiosi: se si escludono il mito (o meglio i miti) della creazione e un paio di altri episodi (come il sacrificio di Isacco o il sogno di Giacobbe) per il resto il racconto si riduce ad una serie di motivi eziologici o a narrazioni d'occasione volte a legittimare le pretese di Israele sulla terra di Canaan. Di contro alla retorica ravasiana delle Bibbia come "grande codice" della civiltà europea, penso che i miti greci o vikinghi siano infinitamente piu' vicini alla sensibilità moderna (per "moderna" intendo quella degli ultimi due secoli) che non questa saga di ricchi caprai (i Patriarchi). Particolarmente ributtante ho trovato la vicenda di Giuseppe che specula sulla carestia in Egitto: una sorta di archetipo della grettezza bottegaia. La traduzione è accompagnata da un commento - dichiaratamente confessionale - che brilla per la sua inutilità, avedo infatti la pretesa di spiegare un testo antico-orientale per mezzo delle categorie della filosofia e della psicologia tomiste. Comunque sia la lettura della Genesi è proficua per tutti coloro che vogliono comprendere l'essenza dei monoteismi, cioè la loro intransigenza, la loro pretesa di unicità e veridicità assoluta: ammesso infatti che il racconto della Genesi non sia una tarda invenzione di età post-esilica (si veda a questo proposito il bel libro di Mario Liverani "Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele", Laterza) tutto comincio' quando il capo di un clan di beduini delle steppe palestinesi (e se non vogliamo chiamarlo Abramo chiamiamolo con qualsiasi altro nome) comincio' a dire: "Il nostro Dio è il vero Dio perchè è nostro".
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