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Le prime righe del romanzo
In questa scuola c'è una stanza di cui nessuno sa niente a parte me. Se ci fosse il teletrasporto, adesso sarei lì. Chissà, se magari mi concentro...
«Julian!» Il professor Pearce mi chiama così all'improvviso che faccio un salto in aria. «Sei alle superiori da meno di un mese e hai già fatto sei assenze alle lezioni di Inglese.»
Sono sicuro di averne fatte di più, ma sono anche sicuro che non se n'è accorto nessuno che mancavo.
Il preside Pearce si sporge verso di me con i pugni stretti intorno al suo bastone da passeggio lungo e bitorzoluto, in cima ha una creaturina intarsiata di cui ho sentito parlare dai miei compagni che si chiedevano se fosse uno gnomo, un troll o la riproduzione in miniatura dello stesso professor Pearce. Così da vicino, riesco a cogliere la somiglianza.
«Guardami!» urla.
Non capisco perché le persone pretendono che le guardi quando sono arrabbiate con te. Sono proprio i momenti in cui vorresti guardare da un'altra parte. Obbedisco, ma quell'ufficio senza finestre sembra rimpicciolirsi, e pure io: un ragazzino microscopico sotto lo sguardo del professor Pearce.
«Faresti meno fatica a guardare le persone neglio occhi se ti tagliassi i capelli.» Lo sguardo si fa ancora più feroce quando comincio a spostarmi i capelli dalla faccia. «Perché non sei andato a lezione?»
«Non...» mi schiarisco la gola. «Non mi piace»
«Come hai detto?»
Tutti mi chiedono sempre di ripetere quello che dico o di parlare più forte. La ragione principale per cui non mi piacciono le lezioni di Inglese è che la professoressa Cross fa leggere tutti ad alta voce, e quando tocca a me, inciampo sulle parole e lei mi dice che parlo troppo piano.
Alzo di poco il volume della voce. «Non mi piace».
Il professor Pearce inarca sbalordito quei cespugli grigi delle sopracciglia. «Lo trovi davvero un buon motivo, saltare la lezione perché non ti piace?»
«Io...» Sembra che per gli altri parlare sia una cosa del tutto naturale. Se uno dice una cosa, l'altro sa automaticamente cosa ribattere. Per me, invece, è come se la strada che collega il cervello alla bocca sia sconnessa, ed è come se avessi una rara forma di paralisi. Non riesco a parlare, così mi metto a tormentare la punta di plastica del laccio della scarpa.
«Rispondimi! È un buon motivo saltare la lezione perché non ti piace?»
Quello che penso lo so bene, ma le persone non vogliono mica che glielo dici. Vogliono solo sentirsi dire quello che pensano loro. E sapendo già cosa pensano, non è per niente facile.
Il preside alza gli occhi al cielo. «Giovanotto, guardami!»
Lo guardo in faccia; è paonazzo. Gli scappa una smorfia, e mi chiedo se sia il ginocchio o la schiena a dargli il tormento. «Scusi tanto» dico, e la sua espressione si ammorbidisce.
Poi improvvisamente, le sopracciglia si uniscono a formare un unico cespuglio, e lui apre furioso una cartellina con sopra il mio nome. «Dovrei chiamare i tuoi genitori.»
Le dita mi diventano di pietra e il laccio scivola via.
Lui arriccia le labbra in un sorriso. «Lo sai cos'è che mi mette di buon umore?»
Riesco giusto ad accennare un no con la testa.
«Vedere proprio questa espressione di terrore sulla faccia di uno studente quando gli dico che chiamerò a casa.»
Alza il telefono e lo avvicina all'orecchio. Lui e il suo piccolo mostro di legno non mi perdono di vista mentre passano i secondi. Poi lentamente, rimette giù la cornetta.
«Potrei anche non chiamare, forse...se mi prometti di non farti vedere qui dentro.»
«Lo prometto.»
«Allora fila in classe.»
Fuori, nel corridoio, provo a respirare ma tremo ancora come quando ti sfiora una macchina a tutta velocità e tu riesci a scansarti per un pelo.