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1988
27 settembre 1988
168 p.
9788839704924

Voce della critica


recensione di Gallo, M.T., L'Indice 1989, n. 7

Psicoanalisi e cinema hanno costituito, all'inizio del '900, due affascinanti inediti: nascono pressoché contemporaneamente e contemporaneamente si insediano nell'immaginario umano. In questo saggio viene effettuata una riflessione, gradevole e stimolante, sull'incontro di questi due fenomeni, a Hollywood. "Non si tratta - però - della storia della psicoanalisi nel cinema, ma solo di quella dei bizzarri rapporti fra la disciplina freudiana e la sua rappresentazione hollywoodiana" (p. 7). Gli autori illustrano come la psicoanalisi venne accolta e si sviluppò nella cultura nordamericana, per passare poi in rassegna le varie immagini che il cinema di Hollywood dedicò alla figura dello psicanalista.
"Negli Usa la psicoanalisi nacque sotto il segno della divulgazione di teorie sessuali e - per il grosso pubblico - essa sarà legata all'idea del sesso, con quelle semplificazioni e quelle confusioni che il cinema rispecchierà fedelmente" (p. 16). La teoria freudiana, tanto osteggiata in Europa ai suoi inizi, non conoscerà crisi negli Stati Uniti, bensì "ipertrofia" e si svilupperà all'insegna del mito che la "vera cura di ogni sofferenza psichica è l'amore" (p. 16). Nel cinema hollywoodiano lo psicanalista o "psi", come affettuosamente lo chiamano gli autori, viene subito connotato di attributi, se non proprio magici, almeno forniti di ampio potere salvifico e considerato colui che dispensa felicità con abnegazione e amore: "Hollywood, prima ancora di nominarlo, considererà lo psicoanalista come una specie di fabbricante di miracoli e vedremo per anni e decenni la cura psicoanalitica trasformata in un miracolo" (p. 25). In un breve colloquio, infatti, ogni problema dei protagonisti in difficoltà viene onnipotentemente risolto con la dovuta catarsi.
In questo senso "My man Godfrey" è considerato dagli autori "il perfetto precursore dello psicoanalista nel cinema hollywoodiano", poi impersonato trionfalmente dalla dottoressa Peterson, 'alias' Ingrid Bergman, nel film "Io ti salverò" (1945). Da "Io ti salverò" ai film di Woody Allen questo psi mitico sarà tenacemente rappresentato, anche se negli anni perderà, a poco a poco, tutto il suo carisma. "Non ci sarà film serio o brillante, di ogni livello di qualità o di genere che non abbia [...] il personaggio di uno psi, onnipresente ormai come un arredo obbligatorio [...]; tuttavia, alla molteplicità delle presenze, corrisponde la monotonia degli schemi. Il sentimento prevalente è ormai la delusione di non essere salvati in nome dell'amore, e quindi il rancore si appunta contro quella che sembra la più crudele delle smentite di questa aspettativa salvifica: la parcella dello psicanalista" (p. 83).
Lo psi sarà allora spogliato dei panni dell'eroe per essere sempre più svalutato: per esempio è un po' sciocco nel film "Le donne hanno sempre ragione" (1957), fino a divenire psicopatico in "Vestito per uccidere" (1980). Il cinismo e l'aggressività aumentano così nel tempo, con la constatazione che lo psi non è onnipotente e che i sogni non si possono comprare. Solo con Woody Allen il disincanto viene evidenziato in modo più equilibrato, nella comprensione che le aspettative rispetto al ruolo dello psi erano state troppo grandi, che anche gli psi sono "fratelli nella notte di una generale, quieta, amichevole disperazione" (p. 145).

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Conosci l'autore

Simona Argentieri

È membro ordinario e didatta dell'Associazione Italiana di Psicoanalisi e dell'International Psycho-analytical Association. Tra i suoi libri: "Il padre materno" (1999); "La Babele dell'inconscio" (2003 con J. Amati e J. Canestri); "L'ambiguità" (Einaudi, 2008); "A qualcuno piace uguale" (Einaudi, 2010; "In difesa della psicoanalisi" (Einaudi 2013, con S. Bolognini, A. Di Ciaccia e L. Zoja). Collabora con l'«Espresso» e «Micromega».

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