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recensioni di Chiarloni, A. L'Indice del 2000, n. 07
Venezia, Biennale 1993. Sulla facciata del padiglione "Germania" allestito da Hans Haacke luccica un gigantesco marco tedesco, mentre nell'ingresso ammicca una gigantografia di Hitler. All'interno il pavimento è una spianata di detriti, camminando si produce un cupo fragore. Esplicito il corto circuito istituito dall'artista di Colonia: la Germania del benessere è in bilico sulle macerie della storia e ogni passo non può che richiamare la memoria del passato. Una visione che investe l'identità nazionale, e che ho qui rievocato perché Haacke, uso a queste indagini dell'anima tedesca, non è un caso isolato. Colpisce infatti nella produzione artistica della Germania riunificata un dato costante: a differenza degli italiani, gli autori tedeschi - anche quelli più giovani - tornano a interrogarsi sul passato. Il racconto in parte autobiografico di Hans-Ulrich Treichel, un poeta recentemente approdato alla prosa, si colloca in quest'area tematica. La prospettiva - collaudatissima, si pensi ai Tamburi di latta di Günter Grass - è quella infantile, cosa che - diciamolo subito - conferisce al testo uno straniamento non privo di una grata vena ironica.
Una famiglia prussiana in fuga nel 1945 davanti all'incalzare dell'Armata Rossa raggiunge la Germania Occidentale. Il padre, commerciante di salsicce - e parente di certi parvenu ritratti da Grosz - trotta lesto nel decollo economico post-bellico, un successo che Treichel marca puntuale con le insegne sociali degli anni cinquanta, dalla casa coi doppi vetri alla Opel Admiral, l'auto per andare in gita la domenica con moglie e figlio, naturalmente nel più germanico dei luoghi: la selva di Teutoburgo. Tutto bene, dunque, nell'ottica del rampollo che ci racconta la storia. Se nell'album di famiglia non ci fosse quella foto di Arnold, il fratellino maggiore disperso lungo la fuga dall'Est del Reich, una vicenda che evoca spettri lontani di russi e polacchi, di "colpa e vergogna". E quel tremito della madre, quel suo sguardo mesto e poi - ancor peggio per il reuccio di casa che teme di venir spodestato - l'improvviso accendersi nei genitori di una speranza. Già, perché intanto si è messo in moto l'alacre macchinario della Croce Rossa e, vagliati con minuzia tutti i dati somatici del bimbo perduto, ecco saltar fuori dagli schedari degli orfanatrofi tedeschi il "trovatello no. 2307", che minaccia ora d'irrompere nell'esistenza del nostro narratore.
Nulla dirò sul geniale - e kleistiano - finale a sorpresa. Piuttosto vorrei sottolineare come la storia non sia limitata, come vorrebbe Sigrid Löffler ("Die Zeit", 26 marzo 1998), all'analisi se pur sottile di una psiche infantile attanagliata dalla gelosia. Nel nucleo centrale, tra le pieghe spesso comiche del testo, c'è dell'altro. Per rintracciare Arnold, infatti, l'intera famigliola si consegna ai tentacoli di un apparato scientifico e burocratico che gradualmente rivela un suo macabro sostrato. La minuziosa schedatura operata da un Istituto di patologia criminale e il lenticolare rilevamento di impronte digitali e ossa mascellari, di lobi nasali e auricolari - per non citare che alcuni dei dati da incrociare con quelli del "trovatello no. 2307" nella ricerca dei "caratteri ereditari" - richiamano infatti il lessico della Erbbiologie, la biologia genetica cui attinse molta scienza di sinistra memoria.
E se il lettore, distratto dai sapidi tratti grotteschi di questa millimetrica ispezione corporale di famiglia, non si fosse accorto del corto circuito innescato dall'autore, ecco emergere dai vani sotterranei della mensa dell'Istituto di medicina legale di Heidelberg un becchino in camice nero, che si profonde nell'elogio della straordinaria efficienza e pulizia dei "nuovi forni crematori". E accanto a lui la figura del luminare revanchista, un aristocratico nostalgico dell'antico ordine teutonico che regnava nelle perdute terre di famiglia, a oriente del Reich.
Scabra e limpida è la scrittura di Treichel, e senza esibizione alcuna di quella trascorsa violenza che resta tuttavia palpabile nelle simmetrie della memoria. "In me non si placano i morti", si legge in una delle sue poesie, finora inedite in italiano, che Roberta Mentigazzi ha tradotto per "L'Indice" e che pubblichiamo qui a fianco. Con questo racconto, l'autore - nato nel 1952 in Vestfalia da genitori provenienti dalla Prussia orientale - mette in scena una generazione inquieta, che avanza nel mondo con alle spalle le macerie della storia.
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