Ultimo episodio di un trittico iniziato nel 2020 con “Iperboliche distanze”, proseguito nel 2021 con “Magister Puck”, divertissement intorno alla “forma canzone”, “Frammentità” sembra dei tre l’album più convintamente jazzistico. Al trio di Massimo Donà, completato da Michele Polga e Davide Ragazzoni, si sono aggiunti prima il basso di Stefano Olivato, ed ora il fantasioso eppur solido trombone di Mauro Ottolini. Anche in «Frammentità» la parola svolge un ruolo importante, tanto più se è quella di Carlo Invernizzi, uno dei grandi poeti italiani del ‘900. Donà conosceva bene il letterato milanese, ed ha avuto la brillante idea di registrarlo prima che nel 2018 ci lasciasse. Ha quindi deciso, a distanza di tre anni, di aggiungere a quella lettura così partecipata ed emozionante la sua musica. Un’operazione costruita a tavolino ma calzante e rispettosa, che non toglie ma anzi aggiunge valore alla poesia di Invernizzi, al suo geniale tentativo di de–costruire e di rinnovare il significato delle parole, operazione analoga a quella compiuta negli anni ’60 dal free–jazz nei confronti della tradizione jazzistica. Il pensiero quindi è più rivolto a Roswell Rudd, Archie Shepp o Don Cherry che non alle mai nascoste ascendenze davisiane del trombettista veneziano. Tutto appare ancor più chiaro nell’unico brano che lascia parlare soltanto la musica, Pitù, lirico e nostalgico allo stesso tempo. Viene anche ripescata una vecchia registrazione del gruppo di Donà con Francesco Bearzatti, che fa da sfondo alla poesia finale, L’erta sempre nuda, mentre nelle precedenti tracce si ascoltano, tra i vari ospiti, Pasquale Mirra, vibrafono, e Paolo Damiani, violoncello. Un disco da ascoltare ma anche, perché no, da leggere con attenzione (tutte le poesie sono contenute nel booklet).
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