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Quanti anni devono passare, in Italia, perché una grande poeta venga recuperata dall’oblio, e possa ottenere la considerazione e l’ammirazione che merita, e che già le erano state negate in vita? Di Fernanda Romagnoli (Roma, 1916-1986) le piccole e raffinate edizioni pugliesi di Interno Poesia pubblicano la più ampia scelta di poesie finora mai edita, con una esaustiva prefazione di Paolo Lagazzi. Nata in una famiglia piccoloborghese, Fernanda si era diplomata alle magistrali e poi in pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia. Sposata con un militare di carriera, si era dedicata completamente alla famiglia, tenendosi sempre ai margini del mondo letterario, in una sorta di esilio e auto-esilio determinato sia dalla sua indole riservata, sia dall’indifferenza con cui i suoi libri venivano accolti. L'inappartenenza, l'esclusione, la doppia identità sono in lei temi costanti, quasi a rimarcare la sua volontà di non aderire al teatrino dei rapporti sociali, delle relazioni fasulle, della finzione imposta per compiacere il mondo. Nelle cinquantacinque pagine del denso e colto saggio introduttivo di Paolo Lagazzi, Fernanda Romagnoli viene definita “tragica e struggente, ferita e sublime poetessa”. Nessuna leggerezza nei suoi versi, nessuna addolcente retorica, ma spesso sferzate ironiche e autoironiche, paradossali, sprezzanti, marcate da frequenti incisi, interpunzioni, trattini e parentesi: il rispetto attento della metrica e soprattutto l’uso sapiente delle rime, rendevano comunque la sua scrittura ricca di una composta e cadenzata musicalità. Giustamente Lagazzi fa riferimento ad autori che possono averne influenzato l’assetto strutturale: in primis Emily Dickinson, ma anche i nostri Betocchi, Penna e Caproni. Ma le atmosfere e gli esiti stilistici dei suoi versi rimangono assolutamente originali, soprattutto nello splendido libro-testamento “Il tredicesimo invitato”, del 1980, malinconica e rassegnata accettazione della transitorietà dell’esistenza.
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