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Focillon e l'Italia-Focillon et l'Italie
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Descrizione


Il volume raccoglie gli atti del convegno, organizzato nell'aprile 2004 dall'Institut National d'Histoire de l'Art di Parigi e dal Dipartimento di Scienze Storiche dell'Università di Ferrara, dedicato ad Henry Focillon. In quell'anno la Francia organizzò una serie di iniziative, compresa la mostra di Lione, in memoria dello studioso, autore fra l'altro de "La vie des formes". Il soggetto dell'incontro ferrarese è il rapporto di Focillon con l'Italia; indagato attraverso una serie di saggi che evidenziano il rapporto con Benedetto Croce, la considerazione e la conoscenza del medioevo italiano; le sistemazioni e le proposte mussali; la conoscenza e lo sviluppo del pensiero di Focillon nei suoi più tardi allievi non solo in Europa ma anche in America. All'incontro hanno partecipato studiosi sia italiani che francesi i quali hanno posto a confronto, in un vivace ed articolato dibattito, proposte e verifiche nate in scuole e in situazioni culturali diverse.
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Dettagli

2007
1 gennaio 2007
348 p., ill. , Brossura
9788860870483

Voce della critica

Si è spesso parlato del rapporto di Focillon con la cultura tedesca, rapporto tormentato, complesso, fatto di strappi dolorosi e di bruschi ripensamenti. Meno si sapeva invece delle relazioni che lo studioso ha intrattenuto con il nostro paese, con l'arte e con i colleghi italiani. Focillon e l'Italia (che raccoglie gli atti di un convegno del 2004) si propone di colmare questa lacuna.
Conosciuto qui da noi soprattutto per gli studi sul medioevo francese, Focillon si era interessato precocemente alla storia dell'arte italiana. È sulle orme di Piranesi, cui dedica una monumentale tesi di dottorato (1918), che lo studioso rivolge per la prima volta lo sguardo oltre le Alpi: le note, le lettere, i numerosi materiali inediti relativi ai suoi viaggi a Roma e a Venezia, commentati con finezza da Annamaria Ducci, hanno molto da dire sui filtri attraverso i quali i critici stranieri hanno guardato a una produzione artistica percepita pur sempre come un ineludibile punto di riferimento: che cosa ha rappresentato l'Italia per uno storico francese nato negli anni ottanta dell'Ottocento, formatosi in un momento nel quale la nostra disciplina attraversava una fase di virulento nazionalismo?
Quando Focillon iniziò i propri studi all'École Normale quello dell'arte italiana era in Francia un terreno minato. Gli ultimi decenni del XIX secolo avevano visto crescere un interesse sempre più esclusivo per il passato nazionale: contro le pretese degli eruditi tedeschi, l'intenso lavorio della critica aveva già stabilito il primato del gotico francese, esaltandone la continuità e la ricchezza. Ora una nuova e più combattiva storiografia rivendicava alla Francia un patrimonio altrettanto ricco per i secoli successivi. Con Louis Courajod e le sue Leçons dell'École du Louvre, la riscoperta dell'arte nazionale finiva per rovesciarsi nella sua celebrazione. Gli equilibri della storia europea ne uscivano capovolti: in Francia, non più in Italia, venivano ora situate le origini dell'arte moderna. L'opera di Courajod esercitò un fortissimo ascendente sugli studi: Focillon ne avrebbe intensamente risentito, e per suo tramite anche André Chastel sarebbe entrato in contatto con una visione del Rinascimento alternativa a quella classica, burckhardtiana. Nel ricostruire le relazioni tra i due storici, il bel saggio di Ginevra de Majo chiarisce la dinamica di questo passaggio di testimone.
François-René Martin sceglie un diverso punto di osservazione: un lavoro postumo e poco conosciuto. Piero della Francesca, apparso nel 1952 ma concepito già verso la metà degli anni trenta, rivela un altro dei molti volti dell'autore: un Focillon che nella tradizione degli studi storici francesi fu in qualche modo uno straordinario outsider. Focillon proveniva dal mondo della critica e dei connaisseurs, i suoi primi scritti spaziavano dallo studio dell'incisione, al campo allora alla moda dei maestri giapponesi, alla riflessione sull'arte contemporanea. Era giunto a insegnare la storia dell'arte medievale succedendo a Émile Mâle nel 1923 per una fortunata coincidenza: nessuno tra gli studiosi che si presentarono era specialista della disciplina, e Focillon parve il più adatto, vista la sua esperienza di professore e di direttore del Museo delle Belle Arti di Lione. Estraneo a quella preparazione archivistica o archeologica che tradizionalmente costituiva il bagaglio dei medievisti e di quanti si occupavano di arte quattro e cinquecentesca, egli avrebbe portato in questi studi una sensibilità nuova, vivificando una materia alla quale ci si era accostati tramite un approccio esclusivamente documentario con una personalissima meditazione sulle "famiglie spirituali". Martin ce lo mostra alle prese con un Piero della Francesca "architetto", mentre, all'incrocio tra un interesse sempre più marcato per i valori luminosi e la ricerca di una prosa adamantina, incontra il nostro Longhi.
Il dialogo con gli storici dell'arte italiani è serrato, come mostrano del resto gli interventi di Vittorio Stella e Andrea Emiliani, e lo stesso si può dire del confronto con la tradizione germanica. Negli anni in cui Focillon esordiva come studioso occuparsi di critica d'arte, e soprattutto di arte italiana, significava inevitabilmente doversi misurare con una storiografia, quella di lingua tedesca, che sulle ricerche italiane aveva costruito i propri criteri di valutazione e forgiato il proprio strumentario, e che in questo genere di studi vantava un sicuro primato. Il rapporto con i vicini d'oltrereno implicava però per lo storico francese l'esperienza di un metodo, di un'impostazione, di una mentalità completamente diversi. L'inizio del nuovo secolo aveva visto una parte della storiografia tedesca muoversi con sempre maggior consapevolezza verso la ricognizione psicologico-formale dei fenomeni artistici. Già in L'arte classica del 1899 Wölfflin aveva posto le basi per una soluzione purovisibilista del problema dello sviluppo dello stile. Quegli stessi anni registrano inoltre il tentativo di sapore tutto morelliano messo in campo da Wilhelm Vöge per fornire un'analisi rigorosamente formale della scultura gotica: di una produzione sostanzialmente anonima, alla quale si era guardato fino ad allora come a un tutto indifferenziato da decifrare con l'ausilio dell'iconografia, Vöge faceva la creazione di individui riconoscibili, portatori di ben definiti tratti di stile. Focillon fu particolarmente ricettivo nei confronti delle nuove tendenze. I suoi lavori rivelano rimandi continui alle ricerche dei colleghi, ma più ancora sono le lettere che, nel caso della corrente formalista, tradiscono il suo interesse.
L'autore della Vita delle forme non poteva che guardare con curiosità all'insegnamento di Wölfflin. Il saggio di Elena Filippi ricostruisce con precisione le fasi di un corteggiamento destinato a protrarsi negli anni. I ripetuti cenni alle dottrine dello studioso tedesco che emergono dalla corrispondenza ci sembrano però testimoniare della dimensione europea dell'opera di Focillon più che di un eventuale debito: pur nella sua evidentissima impostazione morfologica, il fortunato libretto parla la lingua della critica francese, quella di una tradizione che non aveva mai rinunciato alle raffinatezze dell'approccio letterario né tanto meno alla propria solidissima base storico-documentaria. Il confronto con la prosa wölffliniana ci fa sentire ancora di più come la dottrina di Focillon possa sì definirsi formalismo, ma solo a patto di precisare, con Enrico Castelnuovo: "formalismo fortemente empirico".
Quella del rapporto che lega Focillon alla storia dell'arte tedesca è poi una questione estremamente delicata: formatosi in anni in cui, dopo la sconfitta del '70, la storiografia francese guardava con un'estrema diffidenza ai lavori dei colleghi, Focillon subì con tutta una generazione di studiosi il tremendo contraccolpo del conflitto mondiale con il suo tragico corredo di devastazioni: alla cattedrale di Reims bombardata nel 1914 dall'esercito nemico è dedicato il suo primo lavoro di argomento medievale. Anche nel periodo tra le due guerre, che lo vedrà impegnato a fianco di Bergson e di Valéry in diversi progetti per la collaborazione franco-tedesca in seno alle Nazioni Unite, Focillon manterrà un atteggiamento di cauta apertura.
In questi ultimi anni abbiamo assistito a un aumento considerevole dell'interesse per la storia della storia dell'arte, per una ricerca che, sondando il terreno accidentato delle origini, possa in qualche modo diventare la coscienza critica della nostra disciplina. Focillon è stato in Francia uno dei protagonisti di questi nuovi studi (si veda l'intervento di Alice Thomine e Christian Briend); diverse altre figure stanno tuttavia beneficiando di una scrupolosa revisione. Focillon e l'Italia, con il suo approccio comparativista, con la grande varietà di problemi e opere presi in considerazione, interviene con autorevolezza nel dibattito internazionale. Michela Passini

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