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Anno edizione: 2020
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Come trovare un senso all'esistenza se tutto ha fine? Rispondono Camus e Monod, in un rimando avvincente tra realtà e finzione messo in scena da Telmo Pievani.
«Un giallo filosofico sul nostro destino» - Maurizio Ferraris, Robinson
Lo scrittore Albert Camus non è morto nell'incidente del 4 gennaio 1960. Un suo grande amico, il genetista Jacques Monod, va a trovarlo in ospedale. Stanno scrivendo un libro insieme. Leggono le bozze, ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi. Nel segno del disincanto, prende forma una visione del mondo. La scienza ha svelato la finitudine di tutte le cose: dell'Universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi. Come trovare un senso all'esistenza accettando la nostra finitezza? Camus e Monod passano in rassegna le possibilità laiche di sfidare la morte. L'investigazione diventa un giallo filosofico. Forse la finitudine non implica nichilismo, ma al contrario solidarietà, rivolta, una vita piena. In un gioco raffinato di fatti e finzioni, Finitudine è la storia della vera amicizia tra due Premi Nobel, un dialogo avvincente, un libro dentro un libro. Dopo il successo di Imperfezione, Telmo Pievani torna con un testo sorprendente che affronta con poesia un tema filosofico e scientifico che ci tocca tutti.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
E’ un saggio filosofico presentato come un romanzo, di facile lettura. Può considerarsi un intreccio tra scienza e filosofia che ci aiuta a prendere coscienza della “finitudine”del genere umano e dell’universo, giungendo alla conclusione che non c’è nessun senso della vita, anche se tanto affannosamente ricercato fin dalla notte dei tempi. E’ un romanzo che offre innumerevoli spunti di riflessione. A questo si aggiunga l’aspetto poetico dell’opera nel suo controcanto al “De rerum natura” di Lucrezio. Utilizzando le parole dello stesso Autore, non è l’opera di un “ pomposo filosofo dispensatore di senso”. Lettura consigliabile a chi ancora ha uno spirito critico, onestà intellettuale e amore della Bellezza.
Recensioni
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Centre Hospitalier, Fontainebleau. 10 gennaio – 26 giugno 1960. Albert Camus nacque nell’Algeria francese il 7 novembre 1913 da una modesta famiglia di pieds-noirs, l’anno dopo perse il padre in guerra per una granata. Era tubercolotico, riuscì brillantemente a studiare, si laureò in filosofia nel 1936 ad Algeri. Divenne militante antifascista e giornalista, attraversò ideali e ideologie della sinistra libertaria (restandone a suo modo coerente per sempre), si trasferì in Francia nel 1940, continuò sempre a scrivere molto e bene. Nel 1957 ricevette il Nobel per la letteratura, a conferma dell’altissimo valore letterario delle sue opere. Morì il 4 gennaio 1960 presso Villeblevin, vicino a Sens (Yonne) sulla strada per Parigi, in un incidente d’auto a bordo di una Facel Vega FV3B, nel quale perse la vita anche il suo editore alla guida Michel Gallimard, che perì sul colpo. La figlia e la moglie di Gallimard, sedute dietro, si salvarono, Camus venne estratto dall’auto ormai incosciente e con gravissime ferite, il suo decesso fu dichiarato poco dopo. Lasciò un romanzo inedito.
Si può però ipotizzare che non sia andata così e che sia sopravvissuto per qualche mese, perché no? Il suo caro amico biologo e filosofo Jacques Monod (Parigi, 9 febbraio 1910 – Cannes 31 maggio 1976) allora certo non può che andarlo a trovare in ospedale, leggergli i vari capitoli del testo che avevano deciso di scrivere insieme, discuterne. Dialogano anche sulle reciproche attività trascorse, sull’amore e sulla politica, sui dubbi sorti rispetto alle possibili cause dell’incidente (compreso l’attentato), sulle ricerche genetiche di Monod al Pasteur (che 5 anni dopo frutteranno a lui e ai due amici colleghi il Nobel per la fisiologia e la medicina), sul premio avuto o auspicato, sui virus e la peste, e pure sulle disavventure militanti dello scienziato che cerca di far fuggire dall’Ungheria colleghi perseguitati. Hanno molto in comune i due partigiani antinazisti, non solo affinità politiche e culturali di laici ribelli solitari solidali geni “meridiani”: padri con identico nome (Lucien), madri di sangue “straniero” (spagnolo e americano-scozzese), due gemelli per figli, molto altro.
Il grande Telmo Pievani (Bergamo, 1970) fu allievo di uno straordinario scienziato americano (Stephen Jay Gould, 1941-2002) e oggi è lui stesso maestro di cultura scientifica universale, docente di Filosofia delle scienze biologiche e prorettore a Padova, direttore di Pikaia (il portale italiano dell’evoluzione), direttore di Il Bo Live. In Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà (280 pagine, 16 euro), pubblicato da Raffaele Cortina editore, immagina magnificamente una stesura comune e un intenso dialogo fra due illustri intellettuali francesi, svoltisi (forse) sessanta anni fa, con molti spunti utili pure per capire e affrontare la pandemia in corso. L’argomento scelto da Pievani (che abbiamo intervistato qui) per il volume a quattro mani, di cui ogni volta Monod legge a Camus la bozza del capitolo precedentemente impostato di comune accordo, è la finitudine (da cui il titolo del romanzo italiano). Alcune frasi di Lucrezio (De rerum natura) introducono il prologo, i sei capitoli e la chiusa. Il nostro minuscolo pianeta è già vecchio, c’è una inevitabile caducità di tutte le cose. Il cielo e la terra ebbero un’origine e avranno una fine, ogni cosa è peritura (tranne gli atomi e il vuoto), dovremmo tuttavia non consegnarci al nichilismo e al pessimismo cosmico e, invece, cercare una libertà in bilico tra la certezza di morire e la passione di vivere. Sappiamo che non possiamo sfidare la finitudine con la tecnica o con il progresso o con il DNA. Studiamoli e usiamoli bene ma non ci salveranno dalla fine di ciascuno. Attacchiamoci alla coscienza e alla personalità soggettiva, ai cicli di vite e morti, di aggregazioni e disgregazioni; in fondo non esiste mai una fine ultima, assoluta, definitiva; esiste una doppia libertà, quella della natura da ogni provvidenza, quella umana di scegliersi la propria strada in quella natura indifferente. Non siamo divini, ma esseri imperfetti e desideranti, fragili ed effimeri; ha senso vivere di sentimenti, non di sola paura.
Homo sapiens è un avvenimento piccolo, ma anche unico nella biosfera; ha proprietà come il linguaggio simbolico, l’immaginazione, l’astrazione. Proviamo a goderne con gli altri, ad accudirci con l’etica della conoscenza, quando siamo anche noi al mondo, attraverso pochi valori di un umanesimo realista, scientifico, socialista, liberi e solidali di fronte al comune destino. A ogni bozza di capitolo segue la lunga varia affettuosa precisa conversazione fra i due. Pur se ora si tratta di uno splendido competente multidisciplinare romanzo italiano (senza indici e note, dunque), le tesi delle bozze e del dialogo immaginari fanno riferimento a ciò che Camus e Monod hanno detto e scritto nella loro vita. La fusione meticcia dei due linguaggi funziona (e l’autore spiega ottimamente perché). I riferimenti contestuali e scientifici sono quelli di allora, eravamo tre miliardi (non quasi otto), ricerche e studi comparati avevano portato gli scienziati a certe domande e risposte (non ancora ad altre).
Recensione di Valerio Calzolaio
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