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Tocca al nostro tempo sperimentare una vertiginosa insecuritas, segnata dal disincanto riguardo a tanti idoli di stabilità costruiti utilizzando il nome di Dio o inneggiando al potere umano. Un vento di liberazione mette sotto accusa ogni ricorso a principi dal carattere prepotente-rassicurante, mentre si affaccia il serio dubbio di essere ormai “viandanti votati all’incertezza” (E. Morin). Soprattutto, però, riceve una nuova chance quella che, da sempre, è l’attitudine più preziosa e sofferta di cui è capace la finitezza umana. Ovvero la disponibilità a lasciarsi misurare da ciò che spiazza i nostri schemi e piani di controllo: il richiamo dell’assenza proveniente dall’enigma del mondo, dall’irruzione dei volti, dal possibile celato donarsi di Dio. Che ne è, in tutto ciò, della domanda di senso? Nel testo si vorrebbe tenere aperta una questione decisiva: “custodire la finitezza” (Heidegger) implica riconoscere sfondi di ricchezza ontologica, di verità e di bene che eccedono il piano del finito e per questo donano senso, cioè ospitalità e orientamento, al prodigio e alla responsabilità del nostro cammino? Oppure è la dimensione di un senso solo umano, fasciato di contingenza, alimentato dall’errare solidale e da speranze congetturali, a dover diventare la stella di riferimento per l’avventura esistenziale? Mettendo a fuoco le difficoltà di un percorso che intende respingere sia un modo oggettivante di imbrigliare l’infinito sia la chiusura in un soddisfatto finitismo, il lavoro sviluppa analisi intorno a posizioni di Heidegger, di Gadamer, di Apel, di Levinas, e affronta poi alcune versioni attuali di ermeneutica della finitezza: quelle proposte da S. Natoli, G. Vattimo, M. Ruggenini.
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