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La cinematografia e la letteratura di genere ci hanno portato a conoscere carceri di massima sicurezza, reali e immaginarie; Alcatraz, Shawshank, Huntsville, Shutter Island e altri mostri tentacolari. Da tutte queste strutture, però, il fine ultimo non era della creazione, ma della fuga. "Green River" di Tim Willocks, invece, ci fa vivere all'interno la rivolta dei duemilacinquecento uomini scatenata dallo squilibrato direttore Hobbes. Gli ingredienti ci sono tutti: l'enormità della fortezza inespugnabile, la suddivisione dei bracci e dei suoi occupanti, la struttura gerarchica dei galeotti, le alleanze, le faide, i buoni, i cattivi e quelli che sono dentro ingiustamente. E' davvero violento e crudo, "Il fine ultimo della creazione", crea stati di panico e di disgusto e, ovviamente, ha una componente di lotta bene- contro- male, condotta dal buon dottor Ray Klein contro il cattivissimo Nev Agry. Uniche pecche, i risvolti rosa-hard e l'intrepida dottoressa Devlin, alla quale avrei ritagliato una parte meno scontata. Ritmo altissimo e ottima scrittura.
Non è un libro. E' un film d'azione: crudele, sanguinoso. Per stomaci forti. Ma scritto bene, quindi molto interessante.
Una vita parallela scorre al di là delle recinzioni dei penitenziari di massima sicurezza dove vige un contesto di regole non scritte in cui vittime e carnefici spesso si confondono e si alternano; brutalità, violenza, crudeltà estrema, odio profondo, sono la base delle miserie umane che convivono in un immenso bunker di acciaio, vetro e granito che avvolge e nasconde le orrende vicissitudini di persone obbligate a restrizioni di diversa specie. Un romanzo-thriller graffiante e lacerante che non lesina la volgarità di linguaggio e la sofferenza.
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