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Sembra aprirsi come un tipico romanzo di formazione questo secondo lavoro di Karl-Heinz Ott, incentrato sull'avvicinamento al protagonista di un misterioso quanto repulsivo musicista, portatore apparente di tutte quelle pulsioni infere e intestine difficilmente gestite dall'io narrante nel quotidiano. Ecco allora Friedrich Grävenich, errabondo viandante dal non chiaro passato (non a caso la Wandererfantasie schubertiana ritorna più volte nel testo), fare irruzione nella piatta vita che il protagonista, annoiato professore di filosofia filo-spinoziano, conduce a Basilea. La breve visita estiva si trasforma rapidamente in una lunga quanto estenuante convivenza dai contorni imprecisi, punteggiata di stanche escursioni e di frequenti ubriacature, alle quali il protagonista non sembra in grado di sottrarsi. Uno scivolare lento ma inesorabile, fatto di subitanei pentimenti quanto dell'accettazione di un'alterità che assume via via i contorni dell'ineluttabile. Grävenich va con il tempo a esaurire nel protagonista qualsivoglia slancio vitale e introspettivo, in una costante quanto sterile altalena fra autoaccusa e inconseguente risolutezza, sobrietà ed ebbrezza. Né convince l'ipotesi iniziale di un incontro-scontro fra legge naturale e positiva, un riagganciarsi proficuo (per quanto traumatico) con la matrice animale; nonostante le apparenze, infatti, la presenza di Grävenich non sembra altro che un patetico aggrapparsi da naufrago a un'esistenza che, per quanto venata di insoddisfazione, mantiene tuttavia una parvenza d'equilibrio. La tragica conclusione non comporta lo sblocco di una situazione che il protagonista sembrerebbe agognare: liberato dall'invadente presenza, al protagonista null'altro resta se non rimpiangerne la presenza. Chiara Righero
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