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(recensione pubblicata per l'edizione del 1989)
recensione di Bonola, M., L'Indice 1990, n. 2
A quasi mezzo secolo dalle sue prime pubblicazioni sulla filosofa in questa sua lezione di commiato dall'università Pareyson sembra riprendere e rielaborare con originalità e rinnovato vigore alcune tesi del suo celebre saggio su "Idealismo ed esistenzialismo" (1941), accentuando ora maggiormente l'interpretazione dei motivi esistenzialistici di Schelling e riproponendone la provocatoria inattualità in un clima culturale certamente post-esistenzialista. La sua nota interpretazione, secondo cui l'esistenzialismo è stato il compimento della dissoluzione dell'idealismo hegeliano, viene quindi integrata dalla rinnovata scoperta della valenza esistenziale di alcuni aspetti dell'idealismo schellinghiano, radicalizzati a loro volta molto al di là della lettura di Jaspers, nella direzione del pensiero tragico di Dostoevskij. Le tre figure che delineano lo sfondo del pensiero di Pareyson sono infatti in quest'opera Schelling, Heidegger e Dostoevskij, ma il filo conduttore del loro reciproco rapporto è una riflessione critica estremamente originale e coinvolgente sul legame tra il nulla e la libertà. Sotto il profilo storico Pareyson sottolinea un duplice insuccesso del pensiero moderno, sia nei confronti della fondazione filosofica della libertà, sia nella comprensione del rapporto tra la libertà e il nulla. La coscienza di questo fallimento coinvolge l'intero processo filosofico di "secolarizzazione" del mito religioso, legittimando così il ritorno e la possibile riabilitazione ermeneutica della filosofia della rivelazione.
In questa prospettiva, che rievoca la filosofia positiva di Schelling fondata appunto sulla rivelazione religiosa, la libertà appare assoluto originarsi di Dio dal nulla, una genesi che conserva in sé la traccia della negatività cooriginaria al suo essere. La traccia del negativo, lungi dal dissolversi, acquista realtà esistenziale tramutandosi dal puro non-essere iniziale al "nulla attivo", il male, e rivelando proprio nell'uomo "una impressionante riserva di negatività e una straordinaria vocazione annientatrice" (p. 27). È lui infatti a ridestare la negatività cooriginaria alla libertà consegnandosi ad una libertà negativa e devastante, all'oscuro e inquietante potere di causare la propria autodistruzione. In questa situazione esistenziale soltanto il dolore, "energia nascosta del mondo ", può svolgere al tempo stesso una funzione redentrice nei confronti dell'immane potenza della negatività e rivelatrice del "segreto dell'essere": la scoperta cioè che il dolore stesso è il senso della vita (p. 32). L'eredità dell'esistenzialismo e la radicalità del pensiero tragico trovano qui certamente una sintesi ideale ma assai problematica: il prevalere del significato negativo della libertà per l'uomo, il suo essere autenticamente libero solo come testimone sofferente della propria nullità, sembrano suggerire piuttosto un'ontologia del dolore anziché quella filosofia della libertà che una parte del pensiero contemporaneo, per altre vie, sta ancora ricercando.
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