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I filosofi e il cervello - John Zachary Young - copertina
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Dettagli

1988
14 aprile 1988
263 p.
9788833904283

Voce della critica


recensione di Lovisolo, D., L'Indice 1989, n. 4

Sono molti i neurofisiologi e neurobiologi che, prima o dopo, approdano ai problemi di filosofia della conoscenza: forse perché hanno iniziato a studiare il sistema nervoso cercando una risposta ai loro dubbi conoscitivi, o forse anche perché in queste discipline si sente con maggior forza, rispetto ad altri settori della biologia, la mancanza di un sistema, di una struttura teorica generale. Alcuni ci arrivano tardi, dopo aver studiato cellule e circuiti per tutta la vita, altri come Young, hanno saputo sempre legare la loro pratica di esploratori del sistema nervoso alla riflessione sulle implicazioni più generali poste dal crescere della nostra conoscenza dei processi neurali.
In quest'ultima sua opera il nucleo della riflessione sta nel rapporto fra mente e cervello, fra materia e coscienza. Terreno insidioso, su cui è facile scivolare, seguendo la via di un meccanicismo ottuso e presuntuoso (chi ricorda la definizione del pensiero come "secrezione del cervello" data dal fisiologo ottocentesco? ma il problema riguarda anche le tendenze attuali ad un riduzionismo molecolare sempre più spinto) o quella della riaffermazione di una rigida dualità fra corpo e mente, con la conseguente negazione di ogni diritto del biologo ad invadere un campo che è solo del filosofo. Ed il libro è tutto attraversato dallo sforzo di evitare queste opposte trappole, pur optando chiaramente per una visione antidualistica: "è improbabile che occorra usare due linguaggi totalmente diversi per descrivere il mentale e il fisico" (p. 21). Ci troviamo di fronte ad un ammirevole esempio di uso cauto, giudizioso e non dogmatico di un approccio riduzionista ai temi centrali della conoscenza e della coscienza umana. Non si tratta di un pamphlet contro i filosofi, ma di un appello ad essi affinché quanto si sta imparando del cervello dell'uomo e degli animali entri a pieno titolo nel dibattito filosofico.
Il primo capitolo è tutto dedicato a giustificare questo approccio, con un'attenzione estrema alla terminologia usata ed alle definizioni: le parole sono strumenti delicati e se si vuole convincere "gli altri" della propria correttezza e buona fede, bisogna fare attenzione ai rischi delle analogie. Un esempio importante è dato da termini come "informazione" e "codice", che dice l'autore, "molti studiosi, di formazione non solo umanistica ma anche scientifica, vorrebbero riservare... ai soli esseri umani... L'analogia è talmente stretta che non ci sono virtualmente alternative all'uso, in biochimica, di termini come "codice genetico" o "traduzione"... Il compito importante - per i filosofi e per tutti - è chiarire il significato delle straordinarie analogie che sono recentemente emerse. Non è certo un caso che il linguaggio umano abbia seguito e adottato un sistema antico come la vita stessa. Tuttavia, il campo di validità dell'analogia rimarrà indeterminato finché i sistemi interessati non saranno studiati più a fondo" (p. 43). Colpisce qui, come in tutto il libro, l'estrema attenzione alle ragioni altrui, l'assoluta mancanza di una carica polemica, la presenza al contrario di uno sforzo di umiltà per accogliere i contributi più diversi, per capire e non per affermare una posizione a tutti i costi. Tutta questa prudenza, questo linguaggio piano e schivo da ogni enfasi non tolgono al lettore il piacere di incontrare spesso intuizioni forti e profonde, argomentazioni che costringono a ripensare atteggiamenti mentali che di colpo appaiono meno ovvi.
Ne è un esempio la maniera in cui viene affrontato il rapporto fra mente e cervello. Sono "la stessa cosa" o no? Il problema così è mal posto. "Io preferisco dire che la 'mente' non è affatto una 'cosa', ma che coscienza e attività mentale sono proprietà caratteristiche che si accompagnano a talune attività del cervello" (p. 22). Come dirà ancora più avanti, il problema, almeno a questo stadio delle nostre conoscenze, non è quello di stabilire rapporti di causalità fra fisico e mentale, ma di cogliere la correlazione, la concomitanza dei diversi processi, la loro inscindibile unità. Quando pensiamo a noi stessi e alla nostra esperienza di un flusso mentale continuo, non è necessario, anzi è assolutamente arbitrario, immaginare un'entità che sta dentro un'altra entità. In realtà (come l'autore mette in luce in uno dei passi a parer mio più penetranti del libro) non solo senza cervello non si possono avere facoltà mentali, ma la mente è in un certo senso "più ristretta" del cervello, sia nel senso che una grande porzione dell'attività cerebrale resta sempre inconscia, sia in quello, più significativo, che "la 'mente' è un'entità che in qualsiasi momento non contiene un elevato numero di informazioni" (p. 62), ma solo quelle che in quel dato istante l'attività del cervello fa giungere alla nostra coscienza. Se ci chiedono se le zebre allo stato brado portano il soprabito, rispondiamo di no immediatamente: forse che quest'informazione era già nella nostra "mente" prima che ce lo chiedessero?
Qui emerge un altro degli argomenti centrali del libro: l'attività cerebrale come atto creativo, che parte dall'informazione immagazzinata e codificata per costruire continuamente nuove relazioni, potremmo dire nuove "verità". Ma come può questa attività costruire la rappresentazione di se stessa? "La vita, prima di giungere agli esseri umani, ha sviluppato nel corso di almeno tre miliardi di anni la capacità di costruirsi rappresentazioni e di impiegarle per sopravvivere. Questa è la soluzione del paradosso di come una rappresentazione possa riconoscere se stessa. L'essenza dei sistemi viventi è di non essere dei sistemi isolati: c'è in verità un agente esente [cioè esterno al sistema stesso, nota del recensore] da cui essi dipendono, e questo agente è la loro storia" (p. 74). È in questa visione evolutiva che i rapporti tra mentale e cerebrale vanno collocati.
I due capitoli centrali del libro sono dedicati alla descrizione di come la fisiologia abbia trovato le "testimonianze" di questi processi cerebrali. Sono pagine che hanno valore in sé, come esempio notevole di chiarezza e semplicità divulgative, ma sono anche essenziali all'autore per esplicitare le "basi materiali'' su cui fonda le sue tesi. Particolarmente belle le pagine sui meccanismi della percezione, in cui viene messo in risalto come la percezione sia non atto passivo di ricezione di stimoli esterni, ma ricerca attiva, guidata da aspettative e ipotesi, e come questo sia particolarmente importante nelle modalità percettive più complesse ed elevate, come la comprensione del linguaggio. Ingresso ed uscita, percezione ed atto motorio, sono intimamente legati, e portano l'autore a sostenere che "la conoscenza umana possa essere considerata un particolare sviluppo del processo di raccolta di informazioni utili alla sopravvivenza che è indispensabile a tutti gli organismi" (p. 95). Di nuovo l'approccio riduzionista si confronta esplicitamente con i suoi limiti, quando l'autore afferma la necessità di un'analisi "dall'alto verso il basso", che tenga conto dei livelli più complessi per descrivere i livelli inferiori.
Nell'ultimo capitolo viene affrontato il tema più arduo, quello delle possibili basi biologiche dei sistemi di valutazione, e quindi dei valori. Qui si toccano questioni fondamentali e spinose come quella se la natura umana sia paragonabile a quella degli altri esseri viventi o la trascenda, che è come dire quali siano l'estensione e i limiti della biologia. Esistono "valori oggettivi"? Alcuni filosofi tendono a chiudere la questione affermando, con Moore, che il bene è il bene, e basta, e che esso non corrisponde ad alcuna proprietà naturale che rientri nel campo di indagine delle scienze naturali. L'approccio di Young ovviamente è un altro: ancora una volta parte della neurofisiologia per mettere in evidenza come i suoi sviluppi abbiano consentito di descrivere eventi e funzioni cerebrali associati agli atti valutativi. E per fare ciò, non parte tanto dall'analisi delle funzioni delle aree cerebrali "superiori", come quelle corticali, ma dal loro legame con quella parte del cervello, dall'ipotalamo ai nuclei della base, in cui originano le motivazioni, le componenti emotive, i desideri e il senso di appagamento. Esistono le basi per ricercare, anche se non ancora per descrivere in maniera completa e soddisfacente, il filo che lega le attribuzioni di valore specifiche a quelle generali, il "buono" del gusto al "bene". Se il senso di soddisfacimento è una componente determinante dei processi che garantiscono la sopravvivenza, quando si ha a che fare con gli esseri umani diventa importante tenere conto dell'importanza che hanno i valori sociali.
Cosa ha da dire il biologo a questo riguardo? Young, conscio dei rischi in cui sono incorsi i fautori di un biologismo riduzionista spinto, non dà risposte ultimative, ma indica una traccia, che ci consente di ritrovare nell'evoluzione dei viventi la tendenza all'emergere di comportanti altruistici, ed in particolare nella specie umana di quella che chiama una "tendenza cerebrale alla generosità" (p. 218). È almeno plausibile che particolari condizioni ambientali possano aver favorito, nelle specie preumane, la sopravvivenza di geni per l'altruismo; e se questi aspetti del comportamento umano, con le loro implicazioni valutative, hanno una base genetica, diventa importante analizzare come essi emergano nel bambino, come si fondano aspetti ereditari e apprendimento dei valori morali del proprio gruppo. Il bisogno di adeguarsi alla comunità, la necessità di ricevere gratificazione attraverso l'approvazione è probabilmente già presente nel bambino, ed oggi cominciamo a capire quali, possono essere i meccanismi neutrali che stanno alla base di queste tendenze innate. In questo quadro, l'autore rivisita la suggestiva ipotesi di Gould della "neotenia" della specie umana, secondo la quale l'uomo si differenzierebbe dagli altri primati per la sua infanzia enormemente lunga, anzi, si tratterebbe forse di una fase che non finisce mai, nella nostra vita. "Attraverso un cambiamento neotenico si possono spiegare la dimensione della nostra testa e del nostro cervello, così come molte altre nostre caratteristiche emotive e comportamentali. Noi siamo, in un certo senso, tutti bambini, anche da adulti, e corrispondentemente disposti ad obbedire: di fatto a seguire un codice morale" (p. 229). Ancor più spinoso è il discorso che riguarda i valori estetici: qui la biologia sembrerebbe proprio dover restare fuori dalla porta. Ma - dice il nostro autore - possiamo escludere che l'appagamento estetico, ed il senso di soddisfazione che ne deriva, "il sentirsi a posto", non adempia alle finalità della sopravvivenza?
Alla fine di una lettura come questa il lettore probabilmente avrà alcuni interrogativi che gli girano in testa: va bene, ci sarà del vero, ma tutto ciò non è orribilmente determinista? Che spazio resta alla libertà dell'uomo? E le ultime pagine del libro, dedicate a questi interrogativi, sono tra le più belle.
Basi mentali della libera scelta: il determinismo tenderebbe a spiegare tutto in termini di leggi chimico-fisiche, con i processi che avvengono a livello delle cellule del cervello e delle sinapsi, le interconnessioni fra esse. Ma oggi sappiamo che ogni scelta, anche la più semplice, coinvolge molti milioni di eventi fisici. Siamo sistemi complessi, e la prevedibilità di un sistema diminuisce rapidamente con la sua complessità. La combinazione di tutti questi eventi, inoltre, se pur obbedisce a leggi fisiche, è determinata dalla storia dell'individuo e della specie. In questo senso siamo liberi, in quanto ogni nostra scelta non potrà mai avere una base totalmente obiettiva, ma sarà sempre scelta creativa fra alternative, e siamo determinati (dalla nostra natura biologica, dalle leggi chimico-fisiche che la governano, ed anche dalle limitazioni imposteci dalle interazioni culturali e sociali con i nostri simili). La vita precede il pensiero, e forse si può dire che è la coscienza di vivere che sta alla base di ogni conoscenza umana. Il "cogito ergo sum" deve lasciare il posto al "so di essere vivo", con buona pace del dualismo.
Forse questo libro non dice cose terribilmente nuove, non costruisce nuovi sistemi; indica più semplicemente una via, un metodo da seguire per affrontare i problemi della conoscenza umana non rifiutando quello che le scienze della vita ci stanno insegnando. È il libro che avrei voluto scrivere a ottant'anni, per ora sono felice che qualcuno l'abbia scritto, poi si vedrà.

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