Mettiamo che uno studioso, uno studente o un semplice lettore, tra qualche anno, ma neanche troppi, scorrendo i dorsi dei volumi sullo scaffale di una biblioteca d'arte mediamente fornita, alla voce Lippi trovi questo Filippino Lippi e Sandro Botticelli e lo sfili, dunque, e ne riveli la copertina serica (che non è più Viscosa Snia) con il volto fin troppo caramellato di una Vergine orante, e i profili delle pagine dorati con la porporina, come usava nel dopoguerra certa editoria confessionale, non solo vangeletti tascabili ma anche libri di ammonimenti e precetti per le spose cristiane nella neonata Repubblica; mettiamo che a quel punto il malcapitato lettore apra il tomo, rivelandone l'impaginato sgraziato da sussidiario degli anni ottanta; a quale palinsesto di segnali discordanti gli sarà chiesto di far fronte prima di capire l'occasione e la tipologia della pubblicazione, che solo in copertina rivela il sottotitolo limitativo della mostra, nella Firenze del '400? Non gli sarà da subito chiaro che il libro in questione è la carta di identità forzata e fuorviante di quella che probabilmente è stata la migliore mostra che si sia avuta in anni recenti alle Scuderie del Quirinale (ottobre 2011 - gennaio 2012), e, purtroppo, un testamento iniquo della stessa: le mostre sono effimere, i cataloghi restano. Ma è un assioma che sembra lasciare indifferenti gli storici dell'arte di casa nostra, i quali sembrano avere una forma di indifferenza, forse addirittura di fastidio, salvo rare eccezioni, per la confezione dei volumi che accompagnano le proprie esposizioni: preoccupazioni da esteti d'altri tempi, diranno a propria difesa; o è magari timore dettato, negli ultimi decenni, dal ricatto degli editori specializzati e degli studi grafici, disposti a reiterare ad libitum modelli e gabbie grafiche pur di lavorare a costi ridotti e malamente, per soddisfare la serialità dei prodotti della famigerata industria culturale, delle mostre a pacchetto. Il catalogo Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del '400 è frutto di quanto si è appena detto: è parte di un interessante (anche se diseguale) lavoro di elaborazione storica e critica, snaturato, per ragioni extrascientifiche, da una promozione (di cui non sarà difficile trovare traccia nel colophon) che, temendo l'argomento non attirasse abbastanza famiglie, scolaresche in bus e gruppi di signore borghesi, reimponeva al Lippi, almeno nella comunicazione pubblicitaria e editoriale, un ruolo da gregario. Né d'altra parte il comitato scientifico della mostra ha troppo il coraggio (si deve ammettere che era un limite che si percepiva nelle sale, ma è ribadito nel catalogo) di scardinare il limite geografico imposto nel titolo; e, dispiace correggere il tiro del documentatissimo saggio di Alessandro Cecchi, perché bisognerà davvero ammettere che Filippino non è un pittore per tutte le stagioni, ma è un uomo chiave di una stagione fertilissima, in grado di proporre soluzioni figurative e tecniche sempre rinnovate, che vanno ben oltre le mura della Firenze quattrocentesca (oltre la Pala degli Otto, la Visione di San Bernardo o il San Gerolamo degli Uffizi, che pure sono dei capolavori), a differenza di quanto successe proprio a Botticelli. Rimane sullo sfondo, frainteso o neutralizzato dalla mole di citazioni documentarie, l'eco dell'elogio longhiano al "fiorentino più inquieto e fuori legge degli ultimi decenni del Quattrocento". Anche perché, lungo le oltre duecento pagine del catalogo, si avverte una certa reticenza a manovrare gli strumenti della storia della stile, se non nelle singole schede, con l'eccezione del generoso saggio di Patrizia Zambrano sull'annosa questione dell'intervento lippesco nella Cappella Brancacci (dal quale purtroppo è scomparsa una nota che giustificava il ribaltamento altrimenti incomprensibile di un dettaglio fotografico). Ma già nel saggio di Jonathan Nelson, un po' penalizzato da una traduzione non all'altezza, la novità dirompente della Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva sembra spiegarsi semplicemente con le marionette concitate (ormai tautologiche) delle formule warburghiane: avrà pure una ragione più profonda o più larga il recupero di un'antichità paludosa e un po' isterica che fa capolino in quell'impresa, nella sua potente architettura narrativa e stilistica, e apre la strada ad alcune delle esperienze eccentriche più interessanti del primo Cinquecento, insieme all'altro ciclo monumentale, quello sì fiorentino, in Santa Maria Novella (descritto da Cristina Acidini). Avrebbe fatto piacere avere più eloquenti testimonianze della fortuna di questi cicli pittorici, rappresentati in mostra solo da disegni preparatori, magari trovando conferma, senza vergognarsene, della parentela tra le quattro "virtù" che affiancano San Tommaso nella parete destra dell'impresa romana e le tre giovanotte, appena sbarcate dal torpedone dopo una gita sangiovese incluso che occhieggiano, rubizze, dalla pala di San Nicola di Aspertini in San Martino a Bologna, che rimontano a quasi venticinque anni più tardi. Alessandro Uccelli
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