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Divertente, intelligente e corrosivo. Di solito non mi piacciono i libri in cui l'autore scrive come parla, ma qui il 'linguaggio parlato' non infastidisce e non è sciatto. Nonostante il libro strappi risate, a volte fino alle lacrime, è un libro serio, ma leggero e non 'serioso'. Dice molte cose Colagrande e molto interessanti, ma le dice con l'aria di quello che non se la tira proprio per niente, che non ama parlarsi addosso. Ottima lettura per tutti, soprattutto per quelli che farebbero un allegro falò con buona parte dei libri che svettano nella classifica delle vendite.
Sì, ricorda vagamente 'Bassotuba non c'è', ma, fìdeg, se è meglio! Da leggere e far circolare.
questo libro l'ha già scritto paolo nori. s'intitola "bassotuba non c'è" ed è meno cervellotico e più divertente.
Recensioni
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"L'incanto di questo libro è nelle divagazioni". Così Paolo Nori, nella quarta di copertina di questo romanzo d'esordiente: e così davvero nell'opera prima di Paolo Colagrande, avvocato piacentino. Colagrande è una voce nuova e originale fino alla stramberia. Il suo unico testo noto prima di Fìdeg è Non possiamo non dirci cani, racconto pubblicato sull'"Accalappiacani","settemestrale di letteratura ed arte" che ha fra i suoi collaboratori Daniele Benati, Ugo Cornia e lo stesso Nori. L'incipit è, se non proprio memorabile, di sicuro bizzarro: "Il cane non ha una visione d'insieme; e neanche il senso del vero o il senso del falso e neanche la memoria storica. Del resto lo diceva Nietzsche. Il filosofo Nietzsche racconta che una volta l'uomo ha chiesto al cane: ma perché invece di star lì inutilmente a guardarmi non mi parli della tua felicità? e il cane avrebbe voluto rispondere: perché mi io dimentico subito tutto, compreso quello che volevo dire un attimo fa. Ma si è subito dimenticato anche questa possibile risposta, e così non ha detto niente". Vale la pena di confrontarlo con l'attacco di questo Fìdeg: "Fìdeg, dice Neride Bisi, se è bastarda la memoria. Le cose si ricordano solo se fanno molto male o molto ridere, oppure quando sono legate insieme così strette che ne chiami e te ne vien dietro una fila". Se nell'attacco del romanzo espone una sua paradossale teoria della narrazione, il racconto che parafrasa nel titolo Benedetto Croce ne è una messa in pratica anteriore a quella romanzesca, dove la teoria dispiega appieno i suoi effetti.
Fìdeg fa a meno di una storia comunemente intesa, nel senso di una narrazione che tenga in conto unità di spazio o luogo, eventi riconoscibili come tali e intreccio. La forza di questo che si fatica a connotare come romanzo e intanto un'altra definizione non viene a mente sta nelle sue continue divagazioni, che ne costituiscono una delle strutture portanti. L'altra è, per conseguenza, l'uso insistito eppure naturale del paradosso, non come strumento logico, piuttosto come figura retorica di pensiero; cui si unisce l'iperbole, che del paradosso è parente stretta. Se tutto questo può sembrare artificioso in un romanzo, bisogna iniziare questo libro dal secondo capitolo, aperto da una per nulla casuale citazione di Auden ("I suoi pensieri andavano su e giù / dai versi al sesso a Dio / senza punteggiatura"). Il primo sottocapitolo, E la règia va in C, racconta i natali controversi di grandi personaggi storici, da Cristoforo Colombo / Cristobàl Colòn a Giuseppe Verdi, da Giandomenico Romagnosi a Giuseppe Garibaldi, vero mentore dell'opera. A Garibaldi è infatti intitolato il colossale manoscritto perduto dal nonno della voce narrante e, parodia nella parodia, da un manoscritto perduto hanno origine le vicende digressive raccontate. La "Storia degli eroi di pace e di guerra" dattiloscritta in milleseicento pagine circa da Neride Bisi, morto nel '74, viene riscritta dal nipote in quelle che lui chiama "ottanta pagine scarse", dense però d'ogni genere di rimando metanarrativo e soprattutto extranarrativo.
Non di una storia di eroi di pace e guerra si legge in Fìdeg,ma di un gruppo di intellettuali di provincia, con i loro miti appunto provinciali (Umberto Eco, Sandro Veronesi, Alessandro Baricco, le scuole di scrittura
). Il testo di Colagrande abbonda in richiami intertestuali e, in quanto tale, può forse annettersi a quello di altri scrittori cosiddetti ipercolti di recente individuati dalla critica accademica. Se non che, e qui sta un'ulteriore differenza di Fìdeg, l'intero svolgimento si attua attorno alla dicotomia eroe/antieroe. Delle due categorie, Colagrande sceglie senz'altro la seconda e viene persino il sospetto certo privo di fondamento che la voce narrante del Bisi sia almeno in parte la sua. Se c'è quindi una simpatia chiara per gli antieroi, per i vari Grincia, Benazzi, Pigozzi che popolano queste pagine, non c'è astio per l'Umberto Eco che "su finissima carta della papeterie Joseph Gilbert".??? Nel romanzo dell'Umorismo Estetico del Paradosso Sagace (Ueps, come spiega un notevole glossario accluso in calce) c'è spazio, e non poco, per l'umana comprensione. Un altro esordio promettente di autore che nella vita fa altro: Paolo Colagrande è infatti avvocato e, come dice lui stesso senza finta modestia, "credo che lo farò per tutta la vita".
Giovanni Choukhadarian
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