Fare con poco, fare con altri, fare stando fuori dal mercato e dalle istituzioni. Se c'è un carattere che costruisce l'attuale discussione sull'abitare e la città in questi anni di crisi, si tratta di una sorta di nuovo francescanesimo: l'osservanza di codici comportamentali attenti alla frugalità e al riciclo, alla messa in scena di una grande operosità, a una nuova cultura architettonica, emergenziale, alla fiducia in un esito che oltrepassa i confini delle singole situazioni. In tutta Europa sono innumerevoli gli episodi segnati da questo "fare con poco". Circoscritti, minuti, il più delle volte temporanei. Potrebbero apparire, in sé poca cosa: l'invenzione frivola di alcuni, una dissipazione esagerata di energie, oltre che di risorse e spazio. Nondimeno questi episodi puntuali catalizzano molte attenzioni. Se ne parla molto. Occupano le esposizioni biennali di architettura, le riviste del settore, i corsi universitari. Hanno l'ambizione di mostrare un mutamento delle gerarchie e dei valori attribuiti all'abitare. C'è molta celebrazione attorno a essi. Il libro di Pascal Bruckner, saggista e romanziere francese, trova in queste celebrazioni il suo obiettivo polemico. E la polemica è lucidissima e spietata. Fino a essere ridondante. Sviluppata entro la cornice di un lessico proprio del pensiero religioso in cui tornano continuamente termini come rinuncia, colpa, peccato, espiazione, sacrificio. E i comportamenti sono assimilati a quelli severi degli ordini monastici o ispirati dei predicatori. La tesi è molto semplice: l'ecologismo intransigente è dispotico. I suoi cultori non esitano di fronte a nulla. Se il pianeta è malato, l'uomo è colpevole e deve pagare. La durezza è spiegata, ma solo in parte, da un altro libro di Bruckner, pubblicato a metà aprile di quest'anno in Francia da Grasset, Un bon fils, nel quale l'autore spiega di essersi formato intellettualmente per opposizione al padre razzista, antisemita, violento ed ecologista. Bruckner è un autore controverso. Ma la sua tesi è degna di attenta considerazione in un momento in cui l'ambientalismo si è trasformato in credo collettivo, nell'annuncio della fine dei tempi, nella messa in scena dell'Apocalisse. Alcuni passaggi del libro ricordano la lucida ironia di autori di orientamento diverso: Slavoj iek, ad esempio, che racconta di un'ecologia della paura come forma predominante dell'ideologia del capitalismo globale (In difesa della cause perse, Ponte alle Grazie, 2009). O Alain Badiou, che nelle pagine finali di Il secolo (Feltrinelli, 2006) se la prende con un'epoca che "dal lato dei piccoli borghesi occidentali", s'identifica con l'ecologia, l'ambiente e il movimento contro la caccia "sia essa caccia ai passerotti, alle balene o agli uomini". Insomma, il libro, uscito in edizione originale nel 2011, s'incastra in un nutrito filone di salutari insofferenze per le esagerazioni di un naturalismo neo-aristotelico di ritorno. La prima delle tre parti del libro è dedicata al "fascino del disastro", cioè al passaggio che matura alla fine del XX secolo, da un orizzonte di speranza all'"epoca delle catastrofi". Qui il tema dominante è la paura nelle sue differenti declinazioni. La seconda, ha al centro la banalizzazione dell'idea di progresso che imputa tutti i mali all'uomo: la colpa di foreste devastate, terre bruciate, specie scomparse è nell'ambizione prometeica dell'uomo che ha devastato il pianeta. Torna in mente un fulminante aforisma, nel quale Paul Valery sosteneva che "all'idolo del progresso risponde l'idolo della maledizione del progresso; il che crea due luoghi comuni". Nel secondo luogo comune, quello della dannazione, tutto è colpa dell'uomo, ovvero non c'è più nulla di naturale. Ma è l'ultima parte del libro, la terza, ad essere forse più incisiva in rapporto al dibattito contemporaneo. È qui che l'autore smonta la ridondante mitografia della frugalità. Una mitografia che si è costruita innanzitutto contro il consumismo (ma a ben guardare, anche contro la società), che impone leggerezza ("non lasciar tracce, non aggredire l'atmosfera terrestre, giungere alla neutralità carbonica, sfidare la gravità"), ama il calcolo matematico, si avvicina in modo ingannevole alla convivialità, mentre rimane sottrazione, austerità, sacrificio. Nel decostruire il mito della frugalità Bruckner accosta autori che, se pure non collocati su piani diversi, hanno tuttavia affrontato il tema con angolazioni non assimilabili: gli anarchici Ivan Illich e André Gorz, il più seduttivo e semplicistico Serge Latouche, il radicale Hervé Kampf. Oggetto, tutti, di un attacco frontale. Un attacco che si sviluppa su due piani. Quello già richiamato della catastrofe, dell'Apocalisse, della fine dei tempi. E quello dell'intimità, dell'ordinario, del quotidiano. Poiché l'aspetto inquietante di certo ambientalismo è per Bruckner la capacità d'insinuarsi negli aspetti più intimi della vita: nelle scelte alimentari, di abbigliamento, energetiche. Con la pretesa di controllare i nostri comportamenti, le emozioni, i sentimenti. I casi che richiama sono surreali, divertenti e sarcastici: il cameraman di Los Angeles che decide di non gettare la spazzatura per un anno; il giovane newyorkese che cerca di vivere al nono piano di un palazzo a Manhattan, riducendo al minimo la propria impronta di carbonio; la famiglia che non vuole lasciare alcuna traccia; l'individuo ossessionato dalla calcolatrice che sottopone ogni cosa al conto inesorabile sull'energia grigia incorporata. Una sorta di compagnia circense che fa molto sul serio. Con la pretesa che l'ambito domestico diventi immediatamente sfera politica, come si diceva una volta. Solo che ora tutto è ricostruito sulla virtù della parsimonia: "Possiamo modificare in modo decisivo il corso delle società spegnendo la luce, abbassando il termostato, diventando parsimoniosi e possibilmente vegetariani". Insegnando a tutti il senso della rinuncia. Fin troppo facile, si potrebbe dire, prendersela con il "bio e biologico oppure niente!". Con il seminare cavoli, cuocere il pane, piantare fiori in città. O con il cinismo di chi predica frugalità in anni di riduzione dei consumi ed erosione di patrimoni familiari. O ancora, come nell'epilogo del libro, invocare un'abbondanza di invenzioni contro una scarsità di risorse. Sicuramente è facile. Ma al libro di Bruckner rimane il merito di farci riflettere sugli entusiasmi, altrettanto facili, con i quali accogliamo tutti gli appelli a riciclare, rattoppare, ridurre, rilocalizzare, riparare. Operazioni per alcuni aspetti necessarie, ma "per niente entusiasmanti". Attorno alle quali la convivialità e la felicità dei cultori della decrescita appare una consolatoria scappatoia. Così come la celebrazione del far da sé, fare con poco, fare per altri. In ossequio all'antica figura retorica del cristianesimo, per la quale il meno è sempre, ineludibilmente, il più. C. Bianchetti
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