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recensione di Fissore, G.G., L'Indice 1996, n. 9
Il breve e piacevole saggio dell'autorevole studioso americano, noto per i suoi studi sul Rinascimento, affronta in modo brillante il tema della falsificazione nella tradizione letteraria occidentale, ponendosi da un punto di vista di interessante novità. "Da più di duemila e cinquecento anni l'arte della falsificazione diverte gli osservatori neutrali, irrita le vittime umiliate, continua a prosperare in quanto genere letterario e, cosa sommamente strana, stimola importanti innovazioni negli stessi procedimenti tecnici dei filologi". In queste parole dell'introduzione è la chiave di lettura di un'arte che (malgrado la connotazione negativa, certo meglio resa, nel sottotitolo, dall'originale "duplicity" che non dalla "finzione" della traduzione italiana) trova una sua collocazione nella sfera dell'attività letteraria, in stretta e positiva interazione con l'evoluzione della filologia.
Il quadro offertoci va dall'età greco-alessandrina ("il primo, vero periodo d'oro tanto dei falsari quanto dei critici") ai primi decenni del nostro secolo, ed è ricchissimo di episodi gustosi e di personaggi sorprendenti: basterà forse citare un Erasmo da Rotterdam che cede - anche lui! - alla tentazione del falso, a dispetto delle sue riconosciute qualità di sottile ed eticamente spietato indagatore delle falsificazioni altrui. Ma l'esempio di Erasmo non si deve leggere come una piccante eccezione: esso in realtà si pone, proprio come i molti altri personaggi presi in esame, su una linea di continuità che dà conto, ben oltre forse le stesse intenzioni di Grafton, della fondamentale duplicità insita negli intellettuali che si dedicarono alla critica testuale, dall'antichità a oggi. Perché tutti gli esempi o quasi, proposti nel saggio riguardano uomini calatisi pienamente entro i problemi dell'analisi filologica, di cui elaborano regole e tecniche valide tanto per decrittare i falsi quanto per costruirne di nuovi. Così egli, da un lato, può scrivere di uno dei più noti falsificatori di fonti medievali, il frate domenicano Annio o Nanni da Viterbo (1432-1502), che "creò non solo testi falsi ma anche regole generali e verosimili per la valutazione stessa delle opere, regole che a loro volta funsero da punto di riferimento per tutta la successiva riflessione sulla valutazione delle fonti", tanto da farlo definire "un falsario [che] assurge al ruolo del primo teorico davvero moderno del metodo critico di lettura degli storici". Dall'altro, nel trattare in parallelo l'opera di tre grandi studiosi e decrittatori di falsi: Porfirio (III secolo d.C.), Isaac Casaubon (1559-1614), Richard Reitzenstein (1861-1931), a buon diritto può osservare che essi impiegarono tutte le loro grandi doti critiche anche, se non soprattutto, per affermare l'autorità delle dottrine religiose e filosofiche da essi abbracciate; tutti e tre, infatti, si occuparono di critica testuale non solo per amore dello studio, ma "per quello che essi vedevano come un più elevato fine ideologico"; come stupirsi, allora, se tutti e tre, proprio a causa del loro impegno militante, abbiano dato "mostra di uno spirito critico molto meno acuto allorché passarono a occuparsi di testi conformi alle loro idee e desideri", sostenendone l'autenticità contro l'opposto e motivato parere di altri critici?
Alla fine del libro, dopo una successione incalzante di personaggi di scintillante e proterva creatività, e di avvincenti battaglie di ingegni per il trionfo del vero sul falso o viceversa, per il lettore incuriosito la linea di demarcazione tra critici e falsari appare perlomeno ambigua: i falsari non furono programmaticamente, e l'autore lo ha ampiamente dimostrato, solo dei falsari: essi ci appaiono, nella quasi totalità, degli studiosi, dei filologi che fanno, più o meno occasionalmente, anche i falsari; e la reciprocità delle interferenze "disciplinari" (non più, allora, "cosa sommamente strana", come afferma Grafton nell'introduzione) non appare dovuta a una contrapposizione netta di "funzioni" sociali o intellettuali, bensì a mescolanze e a intrecci che caratterizzano le attività di studio e di analisi delle fonti, nell'arco della storia millenaria dell'occidente: potremmo, dunque, dire che è all'interno delle scienze filologiche che opera, come corpo organico e non estraneo, il filone del falso. E questo è certamente un risultato stimolante e in parte provocatorio, un'occasione di riflessioni utili non solo in ambito filologico, ma anche in quello più ampio delle ricerche storiografiche alle prese con la valutazione e l'uso delle fonti.
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