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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2020
Michel de Certeau, un incessante corpo a corpo tra fabula e parola
La fabula è un percorso e, al contempo, un percorrere. Qualcosa che, per usare le parole che Michel de Certeau spende per la mistica, «designa un’operazione da fare sui termini che investe». Fabula mistica, dunque: qualcosa che, a partire dal Medioevo, si condensa in un termine che, stratificandosi poco per volta, prende a designare una «nuova maniera di parlare», una forma del dire e, al contempo, una forma del fare. Un dire che è un perdersi e un fare che è un fare puro, quasi disarticolato dalle esigenze dell’opera.
Fabula. Ma una fabula mistica. Mistica, spiega ancora de Certeau, è dapprima un aggettivo, ma poco per volta si sostantivizza. Finisce per precisare sia «un modo di utilizzare, sia di intendere le espressioni che sovradetermina». Designa modi di fare o modi di dire, ma in ogni caso maniere di praticare la lingua. Poco per volta, divenendo complesse e esplicite, «queste pratiche aggettivanti sono raccolte in un loro proprio campo che si riscontra, verso la fine del XVI secolo, con la comparsa del sostantivo: “la mistica”». Questa denominazione – la mistica –, osserva ancora Michel de Certeau, contrassegna la volontà di rendere sotto un comune tetto, di «unificare tutte le operazioni fino ad allora disseminate».
Operazioni che vengono, così, raccolte, selezionate, coordinate secondo una domanda che è anche criterio ordinativo: che cosa è, davvero, concretamente mistico? Queste operazioni vengono poi regolate e formano una vera e propria «maniera di parlare», modus loquendi che lambisce il parlare angelico e la poetica dell’impossibile, la glossolalia (capitoli fra i più affascinanti di Fabula mistica II, sulla glossolalia segnaliamo anche gli importanti dialoghi di de Certeau con Paolo Fabbri e William J. Samarin, raccolti per la cura di Lucia Amara in Utopie vocali, Mimesis 2015).
Ai margini e nelle crepe del nostro mondo sicuro di tutto tranne che della propria rovina, l’eco di ciò che non vuole farsi storia, di ciò che non è riconducibile a niente, men che meno riducibile a simbolo, riappare. Il mistico senza fabula perturba ancora, nella forza muta di chi, oggi, perturba i nostri confini. Tutti i confini. Come l’erba che buca l’asfalto ai margini delle strade, ciò che torna del mistico è un sapere del corpo. Ars loquendi diventata carne. Per questo, la grande lezione di Michel de Certeau è forse ancora iscritta, meglio che altrove, in quel passaggio che dedica a Jean de Labadie: «bisogna riattraversare la mistica, non più del linguaggio che essa inventa, ma del “corpo” che vi parla: corpo sociale (o politico), corpo vissuto (erotico e/o patologico), corpo di scrittura (come tatuaggio biblico), corpo narrativo (corpo di passioni), corpo poetico (“corpo glorioso”). Invenzioni di corpo per l’Altro». Corpo a corpo, incessante, tra fabula e parola.
Recensione di Marco Dotti.
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