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La fabbrica dei soldi
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1998
1 gennaio 1998
206 p.
9788871664217

Voce della critica


recensioni di Cases, C. L'Indice del 1999, n. 01

Il titolo del libro è innanzi tutto quello di un romanzo familiare; i Soldi è il nome di una famiglia.Ma il genitivo soggettivo può essere inteso anche come oggettivo: la fabbrica per fare i soldi. Per quanto riguarda il primo uso del genitivo, il romanzo appartiene indubbiamente alla categoria dei romanzi a chiave. Non so se a Santa Croce sull’Arno – patria dei Soldi e di tutti i conciai e causa prima di tutte le puzze che affliggono il viaggiatore da Pisa a Firenze o viceversa – ci sia un libraio, ma dato e non concesso che ci sia potrebbe fare come quel libraio di Lubecca che quando uscì il primo romanzo di Thomas Mann forniva insieme al libro (con un tenue aumento sul prezzo, immagino) un cifrario con le corrispondenze tra i nomi dei membri della famiglia Buddenbrook e della famiglia Mann, nonché di altri personaggi e altri insigni lubecchesi. L’ipotetico libraio di Santa Croce avrebbe il lavoro facilitato dal fatto che dalla quarta di copertina si desume l’anno di nascita del Giusti, che coincide con quello indicato per un membro della famiglia Soldi. È vero che Mann scrisse poi un saggio per ricusare l’accostamento che era stato fatto tra lui e l’autore, un certo Bilse, di un libro di puri pettegolezzi lubecchesi, indagando la differenza tra il modo giusto e quello scorretto di usare motivi autobiografici, ma per chi aveva più sensibilità per i pettegolezzi che per la letteratura l’ambiguità rimaneva. Anche l’autore della Fabbrica dei Soldi dopo aver solennemente dichiarato che il romanzo è "opera della fantasia" lascia che il redattore della quarta di copertina affermi che la storia è "forse tutta vera".Insomma, anche lui ha la coscienza di avere scritto un romanzo a chiave, ma uno che trascende il pettegolezzo facendo della storia.

La storia è quella dei soldi con la minuscola, che adornano la copertina in forma di banconote che si alternano alle scarpe. Queste sono all’origine di quelli, e la vicenda diventa esemplare per tutta la piccola industria cui l’Italia deve la sua attuale prosperità. Alla base di questa trasformazione c’è il rischio, personale o familiare. Ci si chiederà perché un libro siffatto piaccia a un tipo come me che ha sempre evitato il rischio e sempre nutrito la mentalità dell’impiegato statale. Sarà per amore del contrasto o semplicemente perché con la mentalità dell’impiegato statale non si può fare letteratura, se non satirica.

Il libro si apre con un flash back: la crisi delle biro. La famiglia degli scarpai è già trasferita a Firenze ma i metodi sono ancora quelli di Santa Croce, su cui veglia lo zio Dario, avaro e conservatore, fedele alla propria immarcescibile penna Parker e incapace di capire perché la si debba sostituire con le fragili e inaffidabili Biro. È l’inizio della rottura tra il giovane e ardimentoso Gabriele, che si tira dietro Ferruccio, uno degli zii, e Dario e gli altri zii. Gabriele e Ferruccio fondano un proprio calzaturificio, ma poi l’unità familiare si era ricostituita, lo spirito di famiglia era troppo forte, non per nulla i cinque fratelli, tra cui una sola donna, erano i superstiti di una nidiata di ventuno.

La storia si snoda così tra una serie di aneddoti riguardanti i vari membri della famiglia e le loro varie combinazioni, traversando tutta l’Italia, da Milano dove vive uno dei Soldi, Marco con la moglie francese, conosciuta a Parigi, e i due figli Pietro e Gabriele, a Madesimo, dove questa famiglia è sfollata durante la guerra, fino a Palermo dove Gabriele è portato da una delle sue mansioni. Oltre all’Italia sono presenti altri paesi tra cui il primo posto spetta agli Stati Uniti, grandi acquirenti di scarpe italiane, sicché uno dei Soldi, Pietro, finisce per stabilirsi lì. In tutti questi paesi ne accadono di cotte e di crude, piccoli e grandi imbrogli che spesso ricadono sugli stessi membri della famiglia.Marco, l’unico in possesso di una laurea, ha la fissazione delle ferrovie e si fa fare anche in casa propria una poltrona rossa di prima classe, ma truffa e sfrutta i suoi due figli, che solo sul suo letto di morte riconosceranno di averlo amato nonostante tutto.

Curiosa saga familiare costruita di stranezze e di dispetti reciproci! L’Italia e il mondo vanno avanti, ma a furia di litigi e di follie. Per esempio nella scena della divisione dei beni davanti al notaio, che andrebbe liscia se Dario non reclamasse furiosamente un certo possedimento suscitando i sospetti dei fratelli che lo sanno così attaccato al denaro. Non vi avrà mica sepolto i suoi tesori come Don Abbondio durante la guerra dei Trent’anni? Ma una volta ottenuto l’ambitissimo possesso Dario continua a vivere come prima. Nemmeno l’ingegnere Marco va esente da aspetti oscuri che emergono in vecchiaia.Una sua amante-infermiera ha un marito manesco che lo bastona senza pietà per estorcergli venti milioni, sicché Marco è costretto a raccontare la faccenda ai figli. Comincia un tira e molla che non si sa come finisca, perché il ricattatore insiste e i figli restistono, fino alla morte del padre.

Nell’ultima pagina l’autore riconosce la pazzia come il motore dell’intera vicenda familiare: "È vero che ci sono i pazzi cattivi e quelli innocui. I suoi familiari non erano stati cattivi ma neppure innocui, perché dando sfogo alla loro pazzia avevano sempre trovato il modo di far girare le cose a proprio vantaggio". Sta qui il segreto del miracolo italiano come emerge da tutte le trasmissioni di Gad Lerner: tutti bravissima gente ma pazzi da legare perché corrono dietro ai propri interessi, che sono la cosa più instabile del mondo, ma anche la più vantaggiosa. Bisogna essere grati a Giusti per avere detto queste verità in un momento in cui la corsa al denaro appare la cosa più pacifica, più razionale e meno pazza che ci sia su questa terra e quindi per aver ridato un po’ di respiro alle ragioni di noi pazzi dell’opposta sponda, noi impiegati statali che crediamo che Dio paghi il sabato.

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