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Poche parole, cercando di non tradire la miracolosa semplicità di questo libro. Dapprima, inevitabilmente, il mio pensiero è andato a "Una morte dolcissima" di Simone de Beauvoir. Poi, man mano che mi addentravo nelle pagine di Elisabetta Rasy, il coinvolgimento estetico ed emotivo ha cancellato le comparazioni letterarie. Difficile, molto difficile trovare la giusta misura per scrivere una storia così intima: figlia, madre, sofferenza, trasformazione, morte - e ulteriore trasformazione tra pagina scritta, lettore e autore. Elisabetta Rasy ha trovato questo funambolico punto d'equilibrio, nell'estraneità che sorprende le nostre abitudini ormai prive di sorpresa. Auguro a "L'estranea" di divenire col tempo (che è il miglior occhio critico) un piccolo classico.
Scrittura perfetta, la storia coinvolge e fa piangere lacrime di emozione e rimpianto. Meritatamente finalista al Premio Rapallo, questo libro non cade nella retorica della sensazione a tutti i costi e fa pensare. Con un sorriso triste.
Un rapporto tra madre e una figlia,ma che si ricapovoltera',con la malattia della madre.Un romanzo essenziale che riporta nel lettore ,il ruolo di figlio/a. A tratti emozionante,mai patetico,visto il tema non proprio originalissimo,scritto con disinvoltura emozionale.
Recensioni
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Forse per una di quelle intime assonanze che dicono molto di più di quanto sembri, l'incipit del nuovo libro di Elisabetta Rasy, L'estranea, storia autobiografica che racconta il difficile inoltrarsi di una madre e di una figlia nel territorio estremo della malattia, ricorda quello del romanzo Tra noi due (Rizzoli, 2002), che, di quella madre e di quella figlia, metteva in scena la maturità e l'adolescenza. "Quando mia nonna morì, il 3 gennaio del 1974, avevo da poco comprato una borsa": è con queste parole che esordisce in Tra noi due la voce narrante, mentre qui "la mattina in cui mia madre se ne andò, il 13 febbraio del 2000, il tempo era bello e già fiorivano le mimose".
La nudità del dato di cronaca accompagnata da oggetti di uso quotidiano e osservazioni sul tempo: come se la quotidianità si facesse tiepida carne, da sentire e da toccare, proprio mentre i corpi amati vengono inghiottiti dal freddo e dal buio. E c'è sempre una borsa, femminile nume tutelare, a contrassegnare il passaggio generazionale: dalla borsa rigida vecchio stile di nonna Adele a quella nera di morbida nappa di sua nipote, passando attraverso la borsa rossa della madre, insegna luminosa che trascorre da una storia all'altra, con i suoi segreti: l'aroma di tabacco e di colonia annidato nel fondo, le foto di gioventù e vecchie lettere d'amore come "banconote scadute". Avevamo lasciato la proprietaria della borsa rossa ferma alla stagione della maturità, donna che era stata molto bella e ancora lo era, pur avendo rinunciato alla seduzione e a all'amore, grande consumatrice di libri e sigarette, fragile e forte al tempo stesso. La ritroviamo qui, vecchia signora di ottantun'anni ma ancora agile, orgogliosa e refrattaria all'ordinarietà, che scopre di essere malata. E questo male che inizialmente le pareva soltanto un'ulteriore sfida propostale dalla vita, si rivela gradualmente, in un incedere disseminato di insidie, qualcosa capace di toglierle il bene più prezioso, quello da sempre difeso con ogni mezzo: la propria individualità. Per dirlo con le parole della figlia: "il bene della sua differenza". Da subito rivela la sua natura infida, il terreno della malattia, e per prima cosa attacca le parole, tenta di insabbiarle. La precisa e asettica terminologia clinica è un buco nero che risucchia l'individualità restituendo pezzi di corpo: pezzi guasti, da rattoppare, da rimettere insieme.
È con una punta di dolorosa ironia che Rasy tratteggia i diversi abiti linguistici dei medici incontrati nel percorso: c'è chi non dismette mai l'inamidato e talvolta raggelante camice della professionalità; chi, invece, adotta un look informale e disinvolto nell'illusione di offrire a buon prezzo scampoli di conforto. Per la figlia invece, che con le parole ci lavora, e perciò è altamente sospetta agli occhi dei medici inamidati, risulta sempre più complicato esprimere il proprio sgomento e la propria pena per quel paese ostile che deve attraversare e per la sua compagna di viaggio che le diventa sempre meno riconoscibile. Eppure di questo si tratta, lo sa bene: cercare di costruire un ponte tra le due diverse sponde di un identico sgomento. Ma questa donna vecchia su cui la vecchiaia improvvisamente non è più una sorta di maschera rugosa su un carattere rigoglioso, ma è il reale annuncio della fine, questa donna prigioniera di cellule impazzite e impossibilitata perfino a una ribellione contro una vita che "si sta ritraendo così sgraziatamente da lei", le appare un'estranea: altri non è, ormai, che la signora B. Ma anche lei, la figlia, incapace di penetrare fino in fondo la rabbia e la desolazione materne, risulta agli occhi della signora B. un'estranea.
Per non ritrarsi, il filo del rapporto fa perno sui gesti, gli antichi insostituibili gesti della cura: la nutrizione anche se la madre, come ogni madre, fino all'ultimo vorrebbe ribellarsi allo spossessamento del proprio ruolo , gli unguenti da spalmare con prolungate, sillabate carezze. Per non smarrirsi, il filo del rapporto si muove leggero: su frammenti di ricordi, su immagini rapide, su quei rari momenti di sintonia che sopravvivono anche nel fondo più cupo e solitario della malattia. La scrittura, che ricostruisce e tiene insieme questo percorso lungo la frontiera "tra un paese che ti esilia e un altro che non ti sa ospitare", si è liberata del superfluo, si è fatta essenziale. Solo così, respirando un'aria di concentrata intensità, può riuscire a operare il piccolo miracolo finale: quando la figura materna non giovane, ché sarebbe troppo stato troppo facile immaginarla nell'irriflesso fulgore della vitalità ma già vecchia, e dunque capace di assaporare in piena consapevolezza quel che resta della sua vitalità, resuscita nella sostanza corporea che la malattia aveva annientato. Nitidamente si staglia su un prato verde, davanti a una torre bianca: la torre di Pisa, che lei a tutti i costi aveva voluto vedere, scendendo d'impulso dal treno diretto a Viareggio. Una donna così umorale e così familiare; così vicina, stavolta, da poterla toccare.
Maria Vittoria Vittori
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