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In questo libro Gianni Carchia ricostruisce i tratti essenziali della riflessione degli antichi sui temi dell'arte e della bellezza. Il titolo, L'estetica antica, rimanda a un preciso intento ermeneutico, quello di far intervenire nella ricostruzione una disciplina, l'estetica, che è di origine moderna. Come si legge nelle pagine introduttive, proprio la relazione essenziale tra arte e bellezza istituita dall'estetica moderna permette di cogliere pienamente il significato della riflessione antica, fondata non solo sulla separazione tra questi due concetti ma anche su un continuo confronto tra l'uno e l'altro. In uno dei primi capitoli, l'autore rintraccia l'origine mitica della nozione del bello mettendo a fuoco la figura di Afrodite, nel suo ruolo ambiguo di dispensatrice di gioia e fonte di contese. Da questa duplicità della dea derivano due concezioni distinte dell'arte: una "rassicurante", testimoniata dalla poesia celebrativa di Pindaro e rielaborata all'interno della teoria pitagorica dell'armonia; l'altra decisamente più inquietante, esemplarmente documentata dalla poesia tragica. Accanto a queste due prospettive, secondo Carchia, ne esiste una terza, priva di rapporto col mito e identificabile con la poetica sofistica; con una poetica, cioè, che valorizza l'aspetto meramente tecnico dell'arte e che considera quest'ultima come creazione di illusioni, mezzo di puro intrattenimento. Insieme, le tre prospettive costituiscono lo sfondo della riflessione di Platone e Aristotele, come mostrano i capitoli centrali del libro. Da un lato Platone, erede della concezione pitagorica dell'armonia, pensa a un'arte che sia imitazione di modelli d'ordine e che si impegni nell'educazione morale-civica dell'uomo, in aperta polemica con la poetica dei sofisti. Dall'altro lato Aristotele, nella Poetica, teorizza un'arte tragica, capace di rappresentare la conflittualità e la sofferenza dell'esistenza umana; un'arte fondata su una forte coscienza delle proprie possibilità tecniche, in questo senso erede della cultura sofistica, e che mira al piacere ricavabile dalla comprensione della vicenda tragica, andando incontro così a un'esigenza di ozio raffinato (schole) che già introduce all'età ellenistica. Nel lungo periodo dell'ellenismo - continua Carchia - l'arte diviene sempre di più il mezzo di un ozio raffinato. Perduto ogni rapporto col mito, essa si vincola a una propria tradizione. Così nasce la letteratura e si passa dalla classicità al classicismo, cioè alla consacrazione dei modelli artistici classici, che divengono gli oggetti dell'imitazione (cfr. l'Ars poetica di Orazio). Fa parzialmente eccezione allo spirito del tempo l'anonimo trattato Sul sublime, in cui la ricerca di uno stile poetico elevato approda alla ricerca di un modello umano, non letterario, cioè di un genere d'anima capace di grandi sentimenti, secondo la lezione dell'antico Platone. Con Plotino, con cui si conclude il libro, siamo decisamente fuori dall'orizzonte della cultura ellenistica e davanti a una netta ripresa della speculazione filosofica. Combinando tra loro elementi platonici e aristotelici, egli ritorna alla radice del mito, presentando la ricerca del bello come una strada che può portare l'uomo sia alla rovina sia alla vita migliore, una vita, cioè, che possiede le idee e raggiunge, al di là di esse, il Bene. In questo studio, quasi pioniere nell'ambito della ricerca estetologica italiana, Carchia intraprende lo sforzo di restituire al passato i suoi diritti, pur tenendo sullo sfondo il quadro concettuale dell'estetica moderna e non rinunciando a impiegare, in senso euristico, la categoria dell'autonomia dell'arte. Il mito costituisce lo sfondo stabile, solo a tratti oscurato, della storia illustrata da Carchia. E se la sua presenza nel pensiero presocratico può non sorprendere il lettore, molto più sorprendente e interessante appare il suo influsso sul pensiero, ben più marcato filosoficamente, di Platone e Aristotele. Per Aristotele, ragionare di arte poetica significa confrontarsi con la materia, ma anche con la logica, mitica, della tragedia. Per Platone, che più di Aristotele tuona contro il mito, la dipendenza dal mito sembra in realtà anche maggiore, e Carchia lo mostra sottolineando il significato positivo dell'arte ispirata (Ione, Fedro), così come il valore paradigmatico del regno del divino, coincidente con il regno della bellezza o della perfezione dell'essere. Ma ancora più interessante è l'ultimo capitolo: di fronte a Plotino, cioè a una potente, estrema sintesi del pensiero filosofico antico, ci ritroviamo in un contatto intimo (il più intimo, parrebbe) con la storia originaria di Afrodite: la doppiezza della dea rivive nella duplicità di strade verso il bello che l'uomo si trova di fronte, e il bello è recuperato nel suo valore più profondo, di posta in gioco della nostra esistenza. Il libro di Carchia rivela, in conclusione, una sorta di coazione a ripetere del pensiero, nel suo sistematico ritorno al mito, stimolandoci a cercarne le ragioni. Forse proprio l'ultimo ritorno, quello di Plotino, può aiutarci a capire: la filosofia si volge al mito ogni volta che pensa al bello e all'arte come a esperienze costitutive della nostra umanità, dando nuovo significato all'unità originaria di bello e vita che si mostra, nel mito, nel venire alla luce di Afrodite. E probabilmente, lo spessore di senso di quest'unità è ciò che più separa l'antico dal moderno. Proprio sul tema del ritorno al mito, tuttavia, Carchia non considera una differenza che impedisce di pensare a un percorso circolare, pur ampio: l'ambiguità del volto di Afrodite, o del bello, non può coincidere con un'ambiguità dell'oggetto, neppure se l'oggetto è costituito dagli eventi di una tragedia. Piuttosto, essa è rimessa nelle mani del soggetto umano, che può assegnare di volta in volta questo o quel valore alle cose, fondamentalmente in base alle sue conoscenze. Così, nella tragedia di Aristotele è una scelta umana (l'errore) che muta in senso negativo il corso degli eventi. Nei dialoghi platonici è l'anima che non ascolta la ragione a farsi traviare dal bello sensibile, il quale di per sé non ha alcun potere negativo, anzi riflette la natura di un bello ideale. Infine, in Plotino, non solo l'anima individuale è ancora più chiaramente responsabile della variabilità di valore assegnata al bello, ma il bello ideale è sua volta riflesso della natura del Bene, fondamento unico e assoluto del reale. Carchia nota, a questo punto, che Plotino definisce il Bene "senza forma", per il suo potere di generare ogni forma. Egli interpreta la definizione di Plotino come un'ultima "variazione paradossale" del tema della doppiezza di Afrodite; ma non potrebbe, invece, trattarsi della spia di un atteggiamento filosofico costante, nell'antichità, che pretende dal reale la coerenza e dunque assegna ai suoi principi la chiarezza del bello, lasciando l'oscurità allo sguardo dell'uomo?
recensioni di Guidelli, C. L'Indice del 1999, n. 09
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