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Il lato positivo del romanzo è l’aver messo l’accento sulle traversie degli emigranti, di quei milioni che sognano l’America come terra promessa, salvo poi trovarsi emarginati e in condizioni quasi peggiori a quelle del paese di appartenenza. Sintomatica è la storia di Biju, figlio del cuoco del giudice in pensione Jemubhai Patel (il personaggio principale), ridotto a svolgere mansioni di cuoco, uomo delle pulizie, tuttofare nei più umili ristoranti di New York. E a vivere in tuguri affittati per pochi soldi e visitati da topi, scarafaggi e pidocchi. Le sue misere vicende si allacciano alle peripezie nella casa del giudice a Kalimpong, alle falde dell’Himalaya: ricca magione di un tempo, ora in fase di disfacimento, assieme ai sogni di fasti e grandezza di Jemu che si accorge che i suoi ideali di vita si spengono ad uno ad uno in un misero tran tran quotidiano. Sia al di là che al di qua dell’Atlantico è una discesa gli inferi, il degrado che aumenta col passare degli anni, in omaggio alla legge dell’aumento dell’entropia dell’universo. C’è più di un lato negativo. L’ossessivo ricorso a frasi in hindu; lo sfondo storico, confuso e sfocato: un velo di Gandhi, una spolverata di Nehru e poi la lunga descrizione delle rivolte dei Gurkha alla ricerca dell’indipendenza del loro territorio (un’appendice storica sarebbe stata benvenuta). Il racconto è troppo lungo, si perde in mille rivoli. Infine, straordinari voli pindarici. Esempi: “si infilava un dito nell’ano e scavava, di modo che l’accumulo di palline di capra si scaricasse nella dovuta sede … il dito riemergeva ricoperto di feci (p. 139); “il contatto di organi allungati o risucchianti che assaltano e fagocitano … il fetore di urina e di merda mescolato all’odore di sesso” (p. 204). Canti Orfici o coprolalia? Forse Desai non ha letto Les Misérables di Victor Hugo o I Malavoglia di Verga, dove i perdenti conservano una loro dignità umana che in questo romanzo, dove non v’è possibilità di redenzione, sembra mancare.
Mi è sembrato un libro molto complesso- l'inizio caldo e affascinante- per quanto riguarda la documentazione storica merita un cinque, per quanto riguarda lo stile, a volte le frasi sono a effetto e non colpiscono il segno,mi è sembrato uno stile troppo ''lieve'' troppo rosa, troppo romanzato, a momenti infantile, per quanto riguarda la trama l'ho trovato claustrofobico, non va avanti, mi sono molto annoiata, finirlo è stata un impresa e mi è dispiaciuto- forse date le grandi conoscenze storiche di questa scrittrice sarebbe stato meglio scrivere un saggio Interessante comunque , mi spiace dare un commento nella buona sostanza negativo
Ho trovato per caso l'edizione originale (l'eredita' della perdita)in albergo mentre ero in vacanza. Ritengo che la Desai abbia una scrittura fantastica,lievissima e molto variegata. Obbligatorio leggerla in lingua originale: come il Rushdi dei Figli della mezzanotte si fa apprezzare per leggerezza e poesia. A tutto cio' si aggiunge una trama fantastica centrata attorno a quattro personaggi e ad eventi, momenti e situazioni storico-politiche-culturali-geografiche-religiose molto densi e complessi.Un capolavoro, vi assicuro! Serendipity, vi assicuro che nessun libro consigliato da un critico mi è piaciuto tanto. come lettore forte
Recensioni
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1986. Siamo alle pendici dell'Himalaya, in territorio indiano ma così vicini ai paesi di confine che "la nebbia che irrompe su queste terre come un drago (
) annulla, disfa, ridicolizza ogni tentativo di tracciare frontiere". Il giudice in pensione Jemubhai Patel (detto Jemu) vede la quiete e l'isolamento, che ha scelto di condividere solo con il devoto cuoco e la fedele cagna Mutt, sconvolti dall'arrivo di Sai, la nipote adolescente rimasta orfana. "In una nazione così ricca di parenti, Sai conobbe la penuria": questa frase ben cattura lo spirito e il tono di un romanzo bello e profondo, che ha meritato all'autrice il Booker Prize 2006, il più prestigioso premio letterario inglese. La penuria di parenti può essere anche letta come commento ironico a quella copiosa produzione letteraria indiana di facile consumo che stuzzica il lettore con famiglie allargate e alberi genealogici intricatissimi.
In questo romanzo, tutt'altro che seduttivo, si dipanano al contrario vicende dolenti di individui fondamentalmente soli, diminuiti e rimpiccioliti dagli eventi della storia come i loro nomi. In Eredi della sconfitta compiamo un viaggio nella memoria del giudice, che rievoca il suo tormentato periodo di formazione a Cambridge e la sua frustrata vita matrimoniale. Un viaggio nei tumulti politici della regione, dove si scatena la rabbiosa protesta della minoranza nepalese, cui appartiene Gyan, insegnante privato e amante di Sai. E un viaggio dall'altra parte del mondo. Il romanzo ci ricorda infatti a ogni pagina, in modo forse deliberatamente ossessivo, che ci sono sempre altre parti del mondo da cui provengono, attraverso un movimento incessante di cose e persone, i nostri vicini di casa, i nostri abiti, il nostro cibo. In questo caso, da un'altra parte del mondo chiamata New York, si arrabatta Biju, figlio del cuoco del giudice, che tenta la sua fortuna di emigrante nelle cucine di tanti locali e ristorantini. Dopo aver tolto di mezzo le famiglie allargate, Desai guasta così la festa anche a chi ama i romanzi odorosi di succulente e speziate pietanze indiane, portandoci con Biju al piano di sotto, dove i topi scorrazzano, dove si aiutano e sfruttano al contempo gli immigrati clandestini, e dove uno scivolone su una chiazza di spinaci marci ti può costare un infortunio e la disoccupazione.
E l'autrice scende ancora più in basso, poiché questo è un romanzo garbatamente scatologico, in cui l'atto della deiezione diventa punto di osservazione privilegiato delle vite parallele dei personaggi. Dall'innocuo guano dei piccioni di Trafalgar Square che insudiciando il giudice irridono la sua anglofilia, agli escrementi dei topi newyorkesi con cui convive Biju, fino all'orrore dei violenti scontri tra polizia e sostenitori nepalesi dell'indipendenza del Gorkhaland: "Il corpo di un ragazzo decapitato fece una breve corsa col sangue che sgorgava dal collo, e tutti osservarono la verità delle creature viventi, ossia che dopo la morte, in un atto di finale umiliazione, il corpo si defeca addosso".
Con una lingua ricca, a tratti lirica eppure mai compiaciuta (e ottimamente resa in traduzione da Giuseppina Oneto), con un umorismo beffardo che sa sempre arrestarsi alle soglie del cinismo, Kiran Desai presenta un incrocio di destini che evidenziano le mancate promesse dell'epoca seguita alla decolonizzazione, in cui la vecchia madrepatria Inghilterra ha tradito la devozione di quei sudditi, come Jemu, che ne avevano sposato ideali e costumi, e in cui la nuova madrepatria India rimane, per figli come Gyan, sostanzialmente matrigna. L'autrice ha saputo coraggiosamente ricapitolare tutti i temi classici del romanzo indo-inglese postcoloniale: il destino dei mimic men (gli indiani anglicizzati), il rapporto fra storia nazionale e storia familiare, le tensioni fra tradizione e modernità, i rapporti fra generazioni, la memoria e la perdita, l'alienazione delle diaspore. Temi già magistralmente trattati sia da Anita Desai (madre di Kiran e dedicataria del libro) sia da Salman Rushdie, il cui stile favolistico aveva ispirato La mia nuova vita sugli alberi, romanzo di esordio di Kiran Desai, la quale dimostra con Eredi della sconfitta di aver assimilato la lezione degli illustri precedenti e di aver trovato, con il suo realismo ironico, una voce propria, autonoma e originale.
Vale la pena chiedersi, a questo punto, perché il romanzo si sia meritato, su "la Repubblica", la netta e indispettita stroncatura di Nadia Fusini. Questo non per sindacare sui giudizi personali di un'autorevole anglista, ma per interpretare le sue critiche come sintomo di alcune resistenze che la nostra cultura oppone alla letteratura postcoloniale. In buona sostanza Eredi della sconfitta viene bollato come romanzo furbo che strizza l'occhio a un mercato internazionale affamato di facili allegorie della globalizzazione, intriso di risentimento verso l'Inghilterra e verso la lingua inglese in cui è scritto, condita di termini indiani "come fossero curry". I personaggi di Desai sarebbero non individui con cui è possibile identificarsi, ma rappresentanti emblematici di categorie nazionali, sociali, razziali e la trama solo una lunga sfilza di scene allegoriche.
Poiché la studiosa allaccia i suoi impietosi giudizi a un'accorata nostalgia per i classici della letteratura inglese, varrà la pena osservare innanzitutto che se il romanzo "globale" flirta con il mercato, non risulta che Defoe o Dickens scrivessero solo per la gloria personale. Altrettanto infondata (e alquanto datata) è l'accusa di condire l'inglese con parole "hindu" (sic, come dire parole "anglicane"), poiché fu un certo Kipling a farlo per primo, e la procedura non impedisce di gustarsi Kim o i romanzi di Rushdie, allo stesso modo in cui si gode pazzamente di Philip Roth pur dovendo imparare qualche termine yiddish. La ricchezza dell'inglese è proprio quella di essere una lingua straordinariamente plastica e permeabile, capace di assorbire nuovi influssi e rimodellarsi in tempi e luoghi diversi. E se oggi si assiste senza dubbio alla creazione di un inglese semplificato e impoverito a stretti fini di comunicazione globale (globish), è altresì vero che proprio gli scrittori postcoloniali hanno immensamente arricchito l'inglese come idioma letterario. Non si capisce infine da cosa Fusini deduca che la "cara signorina" Desai (si noti il tono maternalistico) odi l'inglese, invitandola polemicamente a scrivere in "vernacolo": l'inglese è ormai da decenni una delle decine di "vernacoli", dicasi lingue, dell'India.
L'unica osservazione pregnante riguarda la dimensione allegorica dei personaggi e della trama: "In questa visione 'globale' scrive Fusini non si è più individui: si è americani, indiani, giovani, vecchi, uomini, donne". Credo si possa avallare questa accusa, a patto di ammettere che la si possa anche rovesciare di segno, sostenendo che questa sia una condizione propria e ineluttabile del romanzo postcoloniale. Più che farci crogiolare nell'illusione di essere individui unici e irripetibili, esso ci spinge a pensare i personaggi (e noi stessi) come esseri attraversati da immani correnti storiche e politiche, "ammanettati alla storia" come scriveva Salman Rushdie. Il dramma del giudice Jemu, per fare solo un esempio, è che i suoi sforzi di farsi individuo compiutamente inglese cozzano con il razzismo di una società a cui agogna di appartenere ma che lo percepisce sempre come "indiano" più che come persona. Quanti romanzi nostrani, al contrario, ci consegnano i tormenti narcisistici di individui incapaci di pensarsi anche come portatori di identità ed eredità storiche che una sana relativizzazione renderebbe più comprensibili, sopportabili e infine modificabili? Il problema centrale della recensione di Fusini ci sembra essere quello di applicare categorie moderniste eurocentriche a romanzi postmoderni e postcoloniali, senza farsi carico di una svolta epistemologica che ha condizionato anche la letteratura e a cui è perlomeno riduttivo rispondere con un rimpianto per i bei tempi che furono.
Eredi della sconfitta descrive un mondo che fa venire le vertigini, ma è la forma del romanzo che consente allo stesso tempo di mantenere un certo equilibrio nell'osservarlo. Kiran Desai ha dato una vigorosa spallata a un facile esotismo postcoloniale, ma non tutti se ne sono accorti.
Shaul Bassi
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