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recensione di Carbone, R., L'Indice 1989, n. 9
Ho sempre pensato, lottando con un'immagine di superficie, che la narrativa di Edoardo Albinati (il volume di racconti "Arabeschi della via morale" e ora, a ridosso di questa sua prima silloge poetica, il romanzo "Il polacco lavatore di vetri") andasse e vada letta non solo nel senso e nei modi di una prosa volutamente, programmaticamente letteraria, che si fa ammirare per il suo sfarzo, i suoi fuochi d'artificio narcisistico, insomma la sua scaltrezza di stile. L'ideologia letteraria che quella prosa esibisce pone al lettore una continua serie di limiti e barriere di fronte alle quali la letteratura si interroga seriamente (con una certa angoscia, direi) su se stessa, e la felicità letteraria si confronta con l'infelicità, senza aggettivi. È questa, credo, una delle ragioni per cui, negli "Arabeschi", si assiste ad una esasperazione del genere della 'short-story', battuto in lungo e in largo come un campo dove, però, ci sono piccole buche pronte a trasformarsi in voragini; oppure, ne "Il polacco lavatore di vetri", la scelta di un argomento così apparentemente "reale" e "di cronaca" diventa lo strumento per tentare, con un colpo di mano un po' terroristico, un radicale capovolgimento del genere dell''instant-book' (come fa Stanley Kubrick con il film dell'orrore in "Shining", o con quello di guerra in "Full metal jacket").
Leggendo ora "Elegie e proverbi", raccolta di quanto Albinati è andato scrivendo in poesia più o meno da un decennio a questa parte, la situazione mi appare più esplicita. Il problema, è chiaro, non è di stabilire dall'esterno una priorità tra scrittura narrativa e poetica (non solo lirica), ma valutare quanto, nell'orizzonte letterario dello scrittore, sia attivo il rapporto appunto tra prosa e poesia, quanto dell'una passi nell'altra (e non viceversa). Che un buon quoziente di "prosa" (qui adesso le virgolette sono necessarie) entri senza indugio in questa ricerca poetica, è un aspetto confortato dalla stessa dimensione duplice della raccolta, dalla scelta, mi sembra in gran parte alternativa, tra la forma poematica e quella lirica, tra "elegie" e "proverbi", appunto.
È questa duplicità di generi che è posta al centro dell'organizzazione della raccolta, un centro ancora più attivo qualora si prenda atto che le due opzioni non entrano mai, o quasi mai, in contatto tra di loro. I poemetti di apertura e di chiusura incastonano le liriche centrali volendo offrire, di queste, una seconda lettura. In una parola, ad essi è delegato il compito di favorire un supplemento di senso, che coinvolge (questa è la mia opinione) le ragioni, interne ed estensive, di tutto un fare letterario.
Le tre sezioni centrali, che ospitano la maggioranza delle liriche di Albinati ("Antizodiaco", "Hallowe'en*, "Battaglia delle stagioni") presentano scelte di stile decise ed uniformi. La soluzione del componimento breve annulla qui l'opportunità prosastica di tipo, diciamo così, concettuale. È una poesia che ha come centro l'immagine e la successione di immagini, la metafora, a volte aspra, che si insegue di verso in verso per chiudersi alla fine in un movimento ritornante. Non è esclusa la forma del mottetto, di montaliana effigie, ma il "tu", la scelta di un modello di comunicazione interna al testo si attenua sensibilmente, o scompare, lasciando il posto all'evidenza della visione concreta che, proprio in quanto esasperatamente tale, trascende la sua corporeità, va al di là del dato sensibile. La scelta lirica esclude il "sentimento", che può entrare, a volte, come reminiscenza e gratitudine letteraria, magari negli echi di un ultimo Sereni (in una chiusa come questa, ad esempio: "Ora leggo, sono perduto, io pendo come una bandiera / mi gonfiano e passano alte le tue sassate: / una melma lattiginosa orlava il profilo / degli alberi d'estate contro la bianca notte / di Leningrado."), ma sezionato, ridotto a propria immagine. Desiderato come il rigore a cui si aspira, il Settentrione, "nord geometrico"; o vagheggiato come una città non propria, Milano "dove ardere nel freddo le scorie sentimentali". Per Albinati non sembra davvero esserci accordo tra desiderio e sentimento. Nelle sue poesie, si tratta di due valori in drastica divaricazione, essendo il desiderio la forma più tangibile e "cieca" di una realtà che lotta - spesso vincendo - con l"'io" stesso, e viceversa il sentimento presentandosi accettabile solo a bassissime temperature, come "scoria" o conseguente operazione criochirurgica
Nei suoi esiti più alti (penso ad esempio alla sezione intitolata "Antizodiaco", forse la più compiuta del volume) la lirica di Albinati evita la sintassi piana, delegando il senso ad affollamenti di immagini che preferiscono accoppiarsi bruscamente (simile in ciò a un certo De Angelis), e dove il ritmo appare sostenuto chiuso, raramente liberato da qualche endecasillabo che, qua e là, appare saettante, traccia fedele a una tradizione del Novecento narcisisticamente letta e accettata "Esci, tremante, sorgi dal secchio / in cui si scosse il grappolo / dei sogni violenti, monta / alla brusca fonte dei monti argentei / come un ciottolo. // Il grappolo nero, il ciottolo maturo / tu, a forma d'insoffribile pienezza / scagliasti. ").
In una posizione assai diversa si dislocano, in "Elegie e proverbi", i componimenti lunghi. In questo caso, il confronto con la prosa ridiventa serrato, presentando la forma poematica una decisa scelta verso la narrazione, che coinvolge di necessità l'adozione di un verso lungo e di un andamento sintattico discorsivo, argomentante. È qui che il linguaggio poetico si confronta con esigenze di tipo diverso, si proietta all'esterno, tenta, in una parola, di raccontare delle 'storie'. C'è un interrogativo che attraversa, costante, queste elegie: per dirla in parole povere, la domanda è questa: quanto, del 'mondo', può farsi poesia? Oppure: quanto la poesia può, del 'mondo', testimoniare?
Non è un caso che il lungo testo che più si confronta con questo quesito (e che è strategicamente posto alla fine del volume) abbia come titolo "Cinismo e poesia". Il poemetto racconta una storia, la vita infelice di una donna giovane ma senza molte speranze ("Il mondo a ventisei anni è per una ragazza / Non bella, non seducente, ridotto a una serie di futili / Disperazioni, di mutamenti, di spostamenti, di dolorosi / Rivoltarsi nel letto verso la parete"), e poi l'occasione di una festa tutta spezzoni di frasi fatte, parti recitate, miseri tentativi di seduzione. È una storia "banale", e il dramma è dato proprio dalla vacuità della situazione. Mettere in poesia questo mondo richiederà allora una buona dose di cinismo, che, solo, può permettere la partecipazione "sentimentale". Ma perché questo accada, lo scrittore dovrà avere una buona posizione ideologica, e lo spazio ideologico nel quale la poesia di Albinati si confronta con tutto ciò che c'è attorno è quello della Buona Borghesia; quello che, nelle nostre patrie lettere, ha avuto come massimo rappresentante Montale, "nostro poeta maggiore" (così evocato nel testo di apertura del volume, "Elegia aguzza"). Una simile consapevolezza delle proprie scelte culturali e letterarie non mi sembra abbia altri riscontri nella poesia italiana di questi ultimi anni. Per rintracciarne analoghe risonanze occorrerebbe, paradossalmente, andare a Pasolini. Vale a dire, al più acceso e iconoclasta oppositore del 'savoir vivre' e del cinismo del 'borghese' Montale.
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