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Elegie dalla fine del mondo antico (Claudia Gualdana) Non è una prova da poco essere poeta di talento e raffinata erudizione e vivere sul confine ultimo del mondo classico, con ostrogoti che scorrazzano su e giù per la penisola dettando legge e fondando regni. Massimiano poi era di famiglia aristocratica originaria della Tuscia, conosceva il greco, la tradizione giuridica romana, nonché i versi dei grandi che lo avevano preceduto. Probabilmente, non aveva una gran voglia di ridere di fronte allo spettacolo dell'ultimo scorcio della decadenza romana. Non si creda tuttavia che facesse del romitaggio selvatico od epicureo. Rivestì ruoli pubblici, fu ambasciatore, amico di filosofi, visse insomma al centro del suo tempo, nonostante non fosse dei migliori. Era nato intorno al 490 dopo Cristo, lo si dice cristiano, forse, o forse no. In fondo, poco importa. A importare invece è quest'ultimo tesoro pubblicato dalla Fondazione Valla, le Elegie di Massimiano appunto, nella pregevole traduzione di Emanuele Riccardo D'Amanti (Fondazione Valla-Mondadori, pagg. 414, euro 50), in cui di teologia c'è niente. Ci sono invece l'amore, la detestata vecchiaia, il distacco dai sentimenti, dalla vita stessa infine, e la summa della tradizione elegiaca romana. Non proprio in quest'ordine: in poesia temi e suggestioni si accavallano e ci vuole una mano gentile ma ferma per sciogliere i fili e portarci oltre il verso a scoprirne l'origine e la destinazione. Sta di fatto che il Nostro è l'ultimo grande elegiaco romano. Ossia, nel suo poetare troviamo gli echi ellenistici di Callimaco, i tormenti dei poeti nuovi, l'olimpica grandezza dei cantori augustei, soprattutto Publio Ovidio Nasone. Un po' come se avesse raccolto tutto quel che c'era di buono alle sue spalle per passare il testimone al medioevo, che infatti lo ha molto apprezzato, per quella curiosa translatio dei poeti erotici nella mistica cristiana che fa anche un po' sorridere. (da Il Giornale, 6 giugno 2020)
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