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Perché leggere storie dolorose? Il romanzo che ho in lettura ne custodisce una. Cambogia, la guerra, i khmer rossi, gli uomini e le donne di città esportati come schiavi nei campi di lavoro, le famiglie brutalizzate e spolpate, le vite brutalizzate e annichilite. Leggo e mi prende male per le Janie e i Sopham reali e immaginari, cambogiani e mondiali, di allora e di sempre. Quel che riescono a fare gli umani agli altri umani: la crudeltà, la tortura, l’ottusa rinuncia all’empatia che salva chi la prova e chi la fa provare. Leggo i romanzi, anche i più dolorosi, perché sono la prova più inconfutabile che qualcosa è passato, che qualcuno è sopravvissuto per raccontarla. Per me tutte le storie provengono dall’Ismaele battezzato da Melville ma che appartiene alla specie umana fin da sul primo buio bagliore, perché niente vada perso e persino il dolore e l’orrore diventino la rivalsa di una buona storia ben scritta.
Recensioni
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È un’abitudine che ormai fa parte di me, quella di soffermarmi su un titolo, prima di iniziare la lettura di un libro. Per ascoltare quello che vuole dirmi, per fare attenzione alle immagini che evoca nella mia mente, per avere un’anticipazione della storia, per entrare nella giusta atmosfera. “L’eco delle città vuote”: qual è l’eco del silenzio? Può essere assordante, può riempirsi di voci delle ombre che percorrono strade vuote alla ricerca di altre ombre, seguendo itinerari del passato. Suscita angoscia, l’eco delle città vuote, ci martella con la domanda senza risposta - dove sono finiti tutti quanti? Se il silenzio potesse parlare…
Il romanzo di Madeleine Thien è un libro sullo scomparire, sulla Storia che cancella vite umane con un colpo di spugna, come avviene nello splendido romanzo di Daniel Mendelsohn, “Gli scomparsi”. Gli ebrei della yiddishland durante le seconda guerra mondiale nel libro di Mendelsohn, i cambogiani negli anni ‘70 in quella tremenda guerra civile che si pensava finisse il 17 aprile 1975 quando i khmer rossi costrinsero alla resa le truppe governative per dare inizio, invece, ad una serie di incredibili violenze. Phnom Penh è la città dove romba il silenzio - per tutte le città che hanno perso la voce.
La bambina che era scampata al duro lavoro del campo, che non era affogata durante la fuga in barca perché suo fratello le aveva legato un polso ad un pezzo di legno, si chiama Janie nella nuova vita con la famiglia adottiva in Canada ed è ormai sulla quarantina all’inizio del romanzo. Ha studiato Elettrofisiologia, si è sposata, ha un bambino. Tutto sotto controllo. O almeno così pare. Un giorno dimentica di andare a prendere il bambino all’asilo. Un giorno alza la mano su di lui. Il passato è tornato di prepotenza nella sua mente, con il ricordo dei genitori, del fratello, della vita ‘prima’ del 17 aprile e ‘dopo’ - la scomparsa del padre, la marcia estenuante attraverso le campagne sperando in un futuro luminoso che era invece un inganno. Tanto più che, nella sua vita di adesso, è scomparsa un’altra persona vicino a lei - un amico giapponese che studiava il cervello e i meccanismi della memoria. Hiroji Matsui è andato a cercare il fratello maggiore di cui non ha più notizie dal 1975: quattro anni prima era partito con la Croce Rossa per portare soccorsi in Cambogia.
È come se ogni personaggio fosse alla ricerca di uno scomparso: Janie segue le orme della sua famiglia, rivivendo per noi la crudele realtà del regime dei khmer rossi, con fame, malattie e morte sempre in agguato, mentre Hiroji calpesta quelle del fratello, finito ad esercitare la medicina senza strumenti e senza medicine. Quali trasformazioni subiscono un uomo, una donna, un bambino, quando sono a contatto quotidiano con la violenza, quando la morte diventa un’abitudine e salvare la propria, di vita, diventa una priorità assoluta? È scomparsa anche l’innocenza del bambino costretto a fare interrogatori, per non dire di quello che imbraccia un fucile. È scomparsa una parte di Janie, quella che si chiamava Mei, che aveva un padre che faceva il traduttore. Quando si è perso tutto, quando si striscia nel buio verso una salvezza incerta, nelle caverne che trapassano le montagne che fanno da confine tra Cambogia e Thailandia - quale brandello del vecchio sé può restare in due bambini di undici e nove anni? Ed è possibile superare certi traumi, o restano dormienti sotto la superficie di una stabilità riacquistata per poi esplodere quando qualcosa scalfisce la patina che li ricopre?
C’è qualcos’altro ancora che Madeleine Thien vuole dirci con i suoi personaggi cambogiani e giapponesi. Janie ha il ruolo di protagonista nel romanzo, con una Cambogia bella e dilaniata sullo sfondo, ma, mentre il suo fratellino è veramente scomparso per sempre - e lei ne sente la colpa -, il fratello di Hiroji è scomparso di sua volontà e verrà ritrovato: la storia che ha alle spalle parla di altre tragedie di guerra e di altre scomparse, perché James Matsui (si chiamava Ichiro, in un altro tempo e in un’altra vita) ricorda la bomba atomica che ha messo fine alla guerra in Giappone, facendo scomparire altre migliaia e migliaia di persone.
Un libro molto bello nell’angoscia che comunica. Ci parla di un paese lontano, ma, non chiedere per chi suona la campana, suona per te: è un dramma che ci riguarda tutti, se non vogliamo che scompaia la nostra umanità.
A cura di Wuz.it
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