Francesca Marin è dottore di ricerca in Filosofia. Ha partecipato a progetti di ricerca nazionali e internazionali su temi di carattere bioetico. È docente a contratto di Filosofia morale e di Etica sociale presso l’Università degli Studi di Padova. Tra le sue pubblicazioni: Il bene del paziente e le sue metamorfosi nell'etica biomedica (Milano 2012), Responsibility in Nanotechnology Development (Dordrecht 2014, a cura di S. Arnaldi, A. Ferrari, P. Magaudda e sua), Morire altrove. La buona morte in un contesto interculturale (Milano 2014, a cura di C. Viafora e sua). La distinzione uccidere/lasciar morire Il senso morale comune tende a distinguere l’uccidere dal lasciar morire per le seguenti ragioni: innanzitutto, salvo i casi di legittima difesa, si considera intuitivamente valido il dovere “Non uccidere”; per di più, nell’atto che provoca la morte di qualcuno si registra una maggiore carica offensiva rispetto a quella riscontrabile nell’astenersi dal salvare una vita; infine, si sottolineano le diverse motivazioni sottostanti a tali atti perché, mentre l’uccisione è solitamente motivata da ira, rancore oppure odio, l’omissione di un atto in grado di salvare qualcuno in pericolo di vita può rivelare, da parte del soggetto agente, un atteggiamento ignavo, indifferente o egoista. Di conseguenza, il senso morale comune ritiene l’uccidere un’azione moralmente più riprovevole rispetto al lasciar morire. Volgendo poi lo sguardo alla riflessione morale tradizionale e alla lunga storia dell’etica medica, emergono ulteriori aspetti che possono consentire un’analisi più approfondita della distinzione killing/letting die. Da un lato, infatti, sin dall’antichità il pensiero etico-filosofico si è interrogato in merito alla legittimità o meno del suicidio; inoltre, specialmente a partire dalla Seconda Scolastica, è emersa con sufficiente chiarezza la differenza tra uccidere come atto di aggressione verso l’altro e uccidere per legittima difesa. In tal modo, la storia dell’etica è ricca di prospettive teoriche in merito al tema della disponibilità individuale della propria vita. Dall’altro, sin dalla scuola ippocratica, è comparsa una distinzione tra uccidere, atto come tale assolutamente precluso al medico chiamato anzi a guarire e a lenire le sofferenze del malato, e lasciar morire, possibilità che invece, a determinate condizioni, è ammessa nell’esercizio dell’attività medica.