Utilizzando la crème dei tecnici del suono e l’ineguagliabile qualità della produzione affidata alla Quality Record Pressings, la nuova serie Acoustic Sounds è masterizzata a partire dai nastri originali, stampata su vinile da 180 grammi e confezionata in copertine gatefold (“a libro”) ad alta qualità, curate dalla Stoughton Printing Co., dove – come si usava nei dischi dell’epoca – il foglio di carta stampato è applicato sul cartone (e quindi non è quest’ultimo ad essere inchiostrato direttamente). Il tutto sotto la supervisione di Chad Kassem, CEO di Acoustic Sounds, la società più affermata nel campo delle pubblicazioni per audiofili. Pubblicazione selezionate dallo straordinario catalogo Verve/UMe. Per iniziare, la serie si concentrerà su alcuni degli album di maggiore successo degli anni ’50/’60: questa volta tocca ad uno dei massimi capolavori del grande Sonny Rollins, qui in veste di vero protagonista dell’avanguardia anni ‘60.
Nel 1966 il tenorsassofonista Sonny Rollins poteva quasi essere considerato un veterano (aveva ben 36 anni…): già dalla fine degli anni 40, ancora teenager, riscuoteva rispetto (e anche un certo reverenziale timore) presso i suoi colleghi, e vantava una serie di registrazioni straordinarie. Una delle quali, di dieci anni prima, gli aveva lasciato in eredità il soprannome con cui ancor oggi tutti lo appellano: Saxophone Colossus. Ma veniamo a questo capolavoro: Rollins in quegli anni aveva in qualche modo appreso e rielaborato la lezione di Ornette Coleman, ovviamente facendola sua. Convocato in studio quello che fino a pochi mesi prime era stato il tandem ritmico del Classic Quartet di John Coltrane, vale a dire Jimmy Garrison al contrabbasso ed Elvin Jones (che però proprio con Rollins aveva esordito su disco, nelle celebrate incisioni al Village Vanguard) alla batteria, il nostro aggiungeva un altro protagonista di quegli anni come secondo fiato nella prima, lunga facciata dell’album: il trombettista Freddie Hubbard. Solo tre brani in scaletta: la title track apre “a muso duro”, basata su di un solo accordo per più di 22 minuti. Rollins piega il suono del suo sax come mai prima, Hubbard si dimostra all’altezza della fama e della situazione, Garrison è il perno di tutto (arriva a scandire, implacabile, un ‘sol’ per sei minuti interi, senza alcuna esitazione) ed Elvin Jones è semplicemente vulcanico. Finale a sorpresa, ed avrebbe potuto finire qui. Invece arriva la seconda facciata, con il solo trio sax-contrabbasso-batteria in un micidiale blues semplificato (‘Blessing in Disguise’) in cui i tre forzano e piegano un riff ispirato a ‘Hey Ba-Ba-Re-Bop’ di Lionel Hampton. Finale catartico con ‘We Kiss in a Shadow’, grazie ad un Elvin danzante e a un finale sospeso, una nota tenuta che sembra voler risuonare all’infinito…
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