Rinchiuso nel carcere fascista, Antonio Gramsci iniziò un percorso intellettuale che, se gli fosse stato consentito di svolgerlo liberamente fino in fondo, lo avrebbe condotto al distacco dal comunismo; invece i condizionamenti che il suo vecchio campo di riferimento continuò a esercitare su di lui, e la rete di rapporti che gli permetteva di mantenere contatti con l'esterno, agirono da freno, impedirono che la sua volontà di rottura affiorasse in superficie, le eressero attorno degli argini onde non si manifestasse pubblicamente, e nemmeno la morte valse a liberare Gramsci dall'imprigionamento in uno spazio culturale non più suo: egli venne anzi trasformato in icona del comunismo. Questa, in sintesi, è la tesi sottesa al volumetto di Franco Lo Piparo, il quale avanza anche il sospetto che uno dei Quaderni del carcere, quello che secondo la numerazione data ai manoscritti subito dopo la morte di Gramsci dalla cognata Tatiana Schucht sarebbe stato il XXXII, sia andato "disperso" a causa del suo contenuto decisamente eterodosso (ma Gianni Francioni, il maggior conoscitore della struttura dei Quaderni, ricostruendo il modo in cui Tatiana procedette alla loro numerazione ha dimostrato che un quaderno XXXII non esiste a causa di una svista da cui è derivato un salto di numero, e non perché qualcuno lo abbia sottratto). La metafora del doppio carcere è di origine gramsciana. In una lettera del 19 maggio 1930 Gramsci scrive: "Io sono sottoposto a vari regimi carcerari: c'è il regime carcerario costituito dalle quattro mura, dalla grata, dalla bocca di lupo (
). Quello che da me non era stato preventivato era l'altro carcere, che si è aggiunto al primo ed è costituito dall'essere tagliato fuori non solo dalla vita sociale ma anche dalla vita familiare". Il tema del duplice meccanismo repressivo torna in un'altra lettera il 27 febbraio 1933: "Io sono stato condannato il 4 giugno 1928 dal Tribunale Speciale (
). Ma (
) chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il Tribunale Speciale non è stato che l'indicazione esterna e materiale, che ha compilato l'atto legale di condanna". Che le Lettere dal carcere non siano solo il documento di uno strazio umano, ma lascino intravedere anche un dramma politico, è oramai assodato; ed è stata archiviata l'immagine di un Gramsci che durante la detenzione non opera più come soggetto politico, lasciandosi assorbire dalla riflessione teorica e giungendo per quella via alla sublimazione delle sue sofferenze. Il fatto però che nelle lettere Gramsci non abbia modo di rendere espliciti i riferimenti politici, procedendo per allusioni e metafore, obbliga gli studiosi a un difficile esercizio di decodificazione. Sebbene si possano ricavare chiavi interpretative dalle lettere che si scambiavano o indirizzavano a terzi i due personaggi che facevano da tramite tra il prigioniero e il vertice del Partito comunista d'Italia (Tatiana Schucht e l'economista Piero Sraffa), è inevitabile davanti alle oscurità del linguaggio e alle lacune documentali il ricorso a supposizioni. Non meraviglia perciò che il testo di Lo Piparo abbia carattere congetturale. Tuttavia la sua affermazione che con un gruppo di lettere scritte tra la fine del 1932 e il principio del 1933, le più cariche di pathos che Gramsci abbia lasciato, e in particolare con la lettera "esopica" del 27 febbraio 1933, l'ex segretario del Pcdi abbia voluto comunicare di non sentirsi più parte dell'universo comunista, lascia dubbiosi. Come si accorda infatti questa ipotesi con la sollecitazione, rivolta da Gramsci ai suoi interlocutori nello stesso periodo, affinché si sfruttasse la distensione in atto nei rapporti italo-sovietici e si agisse attraverso la diplomazia sovietica per indurre Mussolini a concedergli la libertà? Quelle lettere segnano piuttosto una lacerazione del rapporto con i vertici del Pcdi, che secondo il volere di Gramsci non avrebbero più dovuto essere partecipi delle iniziative per la sua scarcerazione. Sin dal 1930 Gramsci aveva espresso dissenso rispetto alla politica del Pcdi nella lotta al fascismo, basata su un'ipotesi di crisi imminente del regime da lui ritenuta infondata; tuttavia fin oltre la metà del 1932 egli aveva dialogato a distanza con Togliatti, comunicandogli anche, attraverso il linguaggio cifrato delle lettere alla cognata Tatiana, alcune linee della riflessione che stava svolgendo nei Quaderni (ed è singolare che Lo Piparo sostenga che Togliatti veniva informato del contenuto delle lettere di Gramsci a insaputa del prigioniero). A escludere il partito dai suoi disegni, più che il dissenso teorico-politico in sé e per sé, dovette indurlo la convinzione, da lui raggiunta sul finire del 1932, che per incapacità o per dolo i dirigenti del Pcdi avessero gravi responsabilità nell'insuccesso dei tentativi di liberazione fin lì perseguiti. Solo con il tempo si è compreso quanto spazio occupasse nell'orizzonte di Gramsci in carcere l'obiettivo della riconquista della libertà personale e quanto esso condizionasse, al di là delle questioni teoriche o di politica generale, il suo atteggiamento nei confronti del campo di appartenenza, anche perché quell'obiettivo, per come egli lo concepiva, non era conseguibile con pressioni umanitarie o con agitazioni propagandistiche, ma era la posta di una complessa partita, i cui attori principali erano lo stato sovietico e quello italiano e che andava giocata con accortezza politica. Perciò la questione finì con il diventare dirimente per misurare l'affidabilità dei familiari e soprattutto dei compagni di partito; e poiché ai suoi occhi questi ultimi avevano dato troppe mediocri prove di sé, si ingenerò in lui il sospetto che oltre la sventatezza potesse esserci anche del sabotaggio. Sebbene la riflessione di Gramsci in carcere fuoriuscisse dal perimetro teorico entro cui andava svolgendosi l'esperienza del comunismo internazionale sotto la guida di Mosca, egli pervenne sul piano pratico, per quello che concerneva la sua personale battaglia politica per la libertà, a uno sdoppiamento di giudizio; e mentre il disincanto e il risentimento divennero la cifra del suo rapporto con il partito dell'"ex amico" Togliatti, egli continuò a ritenere che nel contesto sovietico vi fossero leve azionabili, non raffigurandosi compiutamente la realtà morale e istituzionale associata alla povertà di pensiero da cui nei Quaderni veniva prendendo vigorosamente le distanze. Alla luce di questo sdoppiamento si comprende meglio perché nel 1937 Gramsci pensasse di espatriare in Urss alla scadenza della pena, circostanza giudicata invece inverosimile da Lo Piparo, il quale ritiene che il consenso all'espatrio sia stato estorto da Sraffa, su mandato di Togliatti, a un Gramsci di per sé propenso a ritirarsi in Sardegna. Ma esistono lettere di Tatiana alla sorella Giulia (la moglie di Gramsci), pubblicate nel 2008, che vanno in senso contrario a Lo Piparo: la Sardegna e l'Urss non erano per Gramsci approdi alternativi (la Sardegna era il luogo del primo ristoro, in attesa di raggiungere la famiglia a Mosca); ed egli aveva disposto che dopo la sua liberazione i manoscritti del carcere fossero spediti alla moglie, il che non avrebbe avuto senso se non si fosse ripromesso di seguire anch'egli lo stesso itinerario. Scrive Lo Piparo che, data la scarsità dei documenti sui rapporti tra Gramsci in carcere e il Pcdi, "l'immaginazione è autorizzata a prendere le più disparate direzioni". Ma se si trascura la documentazione comunque disponibile il ricorso all'immaginazione diviene libero esercizio di fantasia e non aiuta la conoscenza storica. Leonardo Rapone
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