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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Il tema dell'abbandono della madre viene trattato soprattutto alla fine del libro, prima non l'ho trovato emozionante
Libro scelto per la sua specifica ambientazione, la Reggia di Caserta. Ha soddisfatto appieno le aspettative.
Libro consigliatissimo: bella storia, ben scritto, ambientato in un posto bello e misterioso
Recensioni
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Marchetta, l’infanzia irrisolta e la madre sparita
Non c’è un punto interrogativo nel titolo del nuovo romanzo di Giusi Marchetta, edito da Rizzoli: Dove sei stata (365 pagine, 19 euro) non è infatti una domanda, ma una sorta di punto di incontro, dove convergono linee temporali e personaggi per cercare di trovare, invece, una risposta. Protagonista di questa ricerca è Mario, trentenne avvocato, che durante l’estate è costretto a spostarsi da Torino, dove vive, a casa dei genitori, o meglio del padre, chiamato il Capitano, che ha avuto un problema di salute. La madre di Mario non c’è: è andata via quando lui era piccolo, ed è proprio intorno a questa sparizione che il ragazzo si arrovella, che ha costruito la propria vita e la propria fuga da casa, e che ancora, tornato nei luoghi domestici, è solleticato a darsi risposte, a trovare un senso a quella vicenda. Intorno a lui non solo il padre, ma anche una fidanzata che resta sullo sfondo, la si sente solo al telefono; un’amica della madre, Suor Marta, che si rivelerà una sorta di chiave della storia; e una psicologa dell’infanzia, legata alla storia di un bambino che ha visto la madre, moglie di un camorrista, precipitare dalla finestra e morire.
La vicenda ruota intorno a un’ambientazione particolarissima, che necessita alla narrazione e la connota. Dove sei stata si svolge infatti alla Reggia di Caserta, prevalentemente nell’area cosiddetta del Bosco Vecchio dove la stessa autrice Giusi Marchetta ha passato l’infanzia perché – elemento autobiografico entrato tra le pagine – il nonno ha lavorato come custode alla Reggia, e così il padre. Anche il Capitano fa il custode alla Reggia, e quando Mario torna a trovarlo è in quel mondo che viene catapultato, ritrovandosi faccia a faccia con la sua infanzia, e con l’assenza mai spiegata della madre.
Non è una città, ma non è nemmeno la Reggia come è abituato a incontrarla e viverla un turista: è un altro luogo, dove convivono avventura spensierata di giochi di bambini nel bosco, liberi, tra biciclette e palloni, e paura, angoscia di statue inquietanti, di solitudine, senso di soffocamento e di gabbia. Ci sono i turisti, è vero, ma ci sono anche le case dei custodi, quasi invisibili, la Reggia chiusa al pubblico e vissuta da dentro, l’enorme peschiera girando intorno alla quale è impossibile vedere tutto, dall’altra parte, secondo il complesso ed enigmatico progetto di Vanvitelli.
La Reggia, nel romanzo di Marchetta, costituisce un mondo a parte, delimitata da un cancello che se di giorno è aperto, la sera viene richiuso, e non permette a nessuno di uscire. Non ne è mai uscita la madre di Mario, ragazzina desiderosa di vivere la città come e con le coetanee, finisce per non uscirne nemmeno Mario. Limite fisico, quel cancello diventa infatti anche mentale: una volta rientrati alla Reggia si perdono i contatti con il mondo di fuori, come testimonia lo scivolamento che, col progredire della storia, fa sì che siano sempre più ridotte, quasi fino a scomparire, le telefonate di Mario con Camilla.
E così tra boschetti, canali d’acqua, enormi e misteriose vasche e altrettanto angoscianti statue di personaggi mitologici immobilizzati in pose che alludono a colpe e punizioni, l’intrappolamento di Mario nella Reggia lo inchioda all’irrisolto del suo passato, la sparizione della madre, che ha sempre attribuito al padre, verso il quale nutre infatti risentimento. Ma la preziosità di questa storia, la sua vera ricchezza, è che niente è definito una volte per tutte, la verità sfugge, ha mille volti sfaccettati, nessuno solido, nessuno totalmente autentico, proprio come la vita stessa.
Mistero nel mistero, mentre Mario cerca la madre si ritrova in qualche modo ricattato da suor Marta, che gli promette il racconto della verità: per conoscere la vera storia della madre, dovrà occuparsi in quanto avvocato di una causa di affido che riguarda Gianluca, figlio di un camorrista e unico piccolo testimone della morte della madre. Non sapremo mai se la donna si sia o meno suicidata o se sia stato il marito ad assassinarla, e nella sua ricostruzione infantile Gianluca stesso non sa più distinguere tra verità e racconto.
Ci sono molti paralleli tra Gianluca e Mario, a partire dalla verità sfuggente dei fatti che li riguarda, e che per entrambi ha a che fare con la figura della madre. Il vero talento di Giusi Marchetta si rivela dunque in un costante portare avanti e indietro la narrazione dal Mario trentenne al Mario bambino. Sono passaggi che avvengono in modo invisibile al lettore, un pendolo che lega l’oggi al passato e che nella mente di Mario è come la narrazione: continua, senza stacchi che distinguano l’infanzia dall’età adulta.
È un Mario adulto non cresciuto quello impegnato a difendere la causa di Gianluca per parte di suor Marta, che gestisce la struttura di accoglienza per orfani atta a ospitare il bambino. L’irrisolto dell’infanzia, l’egoismo che mette al centro la figura della madre vissuta dal Mario bambino non permette al Mario adulto di prendere la propria rotta, di instradare la propria vita su una solida verità. Ma nessuno, in questa storia, è alfiere di verità complete, nemmeno lo stesso Mario, il cui percorso di crescita e maturazione dovrà scontrarsi con l’assenza di una risposta unica, con l’accettazione del fatto che spesso la realtà che ci si auto-racconta non è quella dei fatti.
C’è dunque un conflitto forte, in questo romanzo di Marchetta, tra i ricordi manipolati dalla visione delle persone e dagli affetti e la realtà degli eventi, spesso così dolorosa da sparire, insabbiata da una sorta di storia che ricostruiscono i bambini, sorta di difesa, ma anche i grandi. Il Mario trentenne conserva ancora una storia di amore materno e l’idea di una sparizione causata da terzi. Il Mario bambino, infatti, non ha ancora fatto i conti con le possibilità di un femminile che sterza rispetto all’idea classica, e che non riesce a tollerare e gestire l’idea di una vita ingabbiata in un ruolo. Nella complessità di un non detto dove si affastellano storie e verità mai svelate da ogni personaggio, Mario costruisce la propria narrazione e la propria personale difesa alle asperità del mondo, la struttura a cui si aggrappa, in un’idea dei rapporti tra le persone quasi manichea, e per questo molto distante dalla realtà sfaccettata.
Dietro la sua assenza, che non la presenta mai in prima persona, la madre resta dunque il personaggio centrale, desiderato, detestato, richiesto e sperato, simbolo intensamente umano di quella complessità che fa a volte della vita una storia apparentemente inaccettabile eppure, nonostante tutto, vera. Solo alla fine, come in ogni storia che si rispetti, Mario arriverà a sfiorare questa complessità e, finalmente, uscirà dalla sua ombra di bambino Peter Pan.
Recensione di Alessandra Chiappori
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