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Anno edizione: 2024
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Mi è difficile restituire la mia lettura di questo volume di Agota Kristof, di cui in passato avevo letto e apprezzato "L'analfabeta". Il volume in oggetto si compone di due testi brevi. Il primo è un racconto di narrativa, che ho letto fluidamente perché lo stile è molto lineare, direi essenziale, ma non credo di averlo compreso; tendo a pensare che l'autrice abbia perseguito l'intento di proporre una narrazione che, al pari dell'esistenza, rimanesse opaca, non decifrabile. Il secondo è un dialogo scritto per una rappresentazione teatrale, reso di nuovo con un linguaggio essenziale, ma più leggero, in un certo senso più gioioso e, di certo, meno opprimente rispetto al primo racconto, la cui conclusione rimane aperta, una non conclusione, appunto, per assonanza, di nuovo, con l'inconcludenza dell'esistenza. Fra le righe di entrambi i testi emerge, come sempre, il trauma non risolto di questa autrice esule, perennemente impegnata nella scrittura che non riesce, però, a essere riparatrice nella sua esistenza. Tuttavia, anche in un volume che rimane opaco come questo, il lettore si imbatte in alcune espressioni straordinariamente belle e inesorabili, che lo rendono più che degno di essere letto. Fra le altre espressioni richiamerei le seguenti: "Per vent'anni non sono stato altro che una grigia assenza"; "Le stelle brillavano nella loro infinita solitudine"; "Ma l'amore dei miei genitori non è il mio futuro".
Lo stile dell'autrice è sempre riconoscibile, ma devo dire che questo libro non è riuscito a convincermi... soprattutto il primo racconto mi è parso troppo "astratto" persino per la Kristof, mentre il secondo racconto un tantino meglio. Insomma un po' una delusione.
Due racconti diversi: bruttino il primo, buono il secondo. Una Agota Kristof in tono minore: sempre leggibile, ma ci aveva abituato molto meglio.
Recensioni
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