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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Mi è difficile restituire la mia lettura di questo volume di Agota Kristof, di cui in passato avevo letto e apprezzato "L'analfabeta". Il volume in oggetto si compone di due testi brevi. Il primo è un racconto di narrativa, che ho letto fluidamente perché lo stile è molto lineare, direi essenziale, ma non credo di averlo compreso; tendo a pensare che l'autrice abbia perseguito l'intento di proporre una narrazione che, al pari dell'esistenza, rimanesse opaca, non decifrabile. Il secondo è un dialogo scritto per una rappresentazione teatrale, reso di nuovo con un linguaggio essenziale, ma più leggero, in un certo senso più gioioso e, di certo, meno opprimente rispetto al primo racconto, la cui conclusione rimane aperta, una non conclusione, appunto, per assonanza, di nuovo, con l'inconcludenza dell'esistenza. Fra le righe di entrambi i testi emerge, come sempre, il trauma non risolto di questa autrice esule, perennemente impegnata nella scrittura che non riesce, però, a essere riparatrice nella sua esistenza. Tuttavia, anche in un volume che rimane opaco come questo, il lettore si imbatte in alcune espressioni straordinariamente belle e inesorabili, che lo rendono più che degno di essere letto. Fra le altre espressioni richiamerei le seguenti: "Per vent'anni non sono stato altro che una grigia assenza"; "Le stelle brillavano nella loro infinita solitudine"; "Ma l'amore dei miei genitori non è il mio futuro".
Lo stile dell'autrice è sempre riconoscibile, ma devo dire che questo libro non è riuscito a convincermi... soprattutto il primo racconto mi è parso troppo "astratto" persino per la Kristof, mentre il secondo racconto un tantino meglio. Insomma un po' una delusione.
Due racconti diversi: bruttino il primo, buono il secondo. Una Agota Kristof in tono minore: sempre leggibile, ma ci aveva abituato molto meglio.
Recensioni
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Se non ci fosse la nota conclusiva di Marie-Thérèse Lathion, avremmo l'impressione di trovarci davanti a un bozzetto, uno di quei disegni a carboncino che i grandi maestri tracciavano come "studio" per la grande opera successiva. Nel racconto breve Dove sei Mathias? e nella pièce teatrale Line, il tempo, si affacciano infatti tutte le ossessioni di Agota Kristof: l'infanzia e la sua terribile lungimiranza, la disperazione che annienta la vita, l'inganno delle parole, l'atemporalità onirica che accompagna il lettore in un labirinto di incertezze.
I due testi provengono dal fondo Agota Kristof depositato negli Archivi letterari svizzeri a Berna, come già L'Analfabeta e i racconti pubblicati l'anno scorso in italiano con il titolo La vendetta (Einaudi). Continua dunque il recupero degli inediti: Mathias, secondo le indicazioni dell'autrice, risale ai primi anni settanta, il periodo in cui Kristof inizia a scrivere direttamente in francese; Line è del 1978.
Entrambi i protagonisti sono bambini. Sandor, che a tredici anni vorrebbe essere un bambino martire, un bambino picchiato pur di ottenere l'attenzione del padre, si annoia di giorno e sogna di notte. E quando sogna di giorno, forse nel delirio di una malattia, costruisce un dialogo surreale con Mathias, dove ricorrono le parole "morte", "vuoto", "assenza" e i tormenti dell'autrice: "Io l'ho attraversata e non ho trovato niente dice un bambino. Ma non c'è niente da trovare" gli risponde l'altro. "Non c'è niente, da nessuna parte".
Caroline, invece, ha dodici anni e discorre d'amore con Marc, che di anni ne ha ventidue, in un parco giochi dove lui attende invano la sua amata. Lei lo accusa di amare la persona sbagliata, una donna che non lo vuole, e alle battute ironiche di Marc sulla sua età oppone certezze toccanti: "Io sono più grande della mia età, capito? So benissimo cosa vuol dire essere innamorati. È quando vogliamo sposarci con qualcuno". Nella seconda parte, dieci anni dopo, una Line ventiduenne incontra per caso Marc, attira la sua attenzione per essere riconosciuta, apprende che lui è diventato orfano, ha divorziato, non ha figli, cerca un lavoro, e continua a propinarle luoghi comuni: "Tu non hai un passato, Line. Sei così giovane". "Sono giovane sì, ma ho un passato: te. Per dieci anni sono venuta in questo parco ogni giorno. Tu non c'eri più. Il parco era qui, pieno di bambini, di mamme, di ragazze, di vecchi. Pieno di gente eppure vuoto. Senza di te, per me era un deserto". E ora, con il ritorno, "il sole dovrebbe splendere, i giorni illuminarsi, e invece non succede nulla". Quei dieci anni non si possono cancellare, la vita deve restare rimpianto: "Ti ho sognato molto, sai, ho sognato il tuo ritorno. Ma nei miei sogni eri diverso. Eri più alto, più bello, più allegro. Tornavi a cercarmi, ma non avevi questo passato triste e pesante sulle spalle". E quando lei se ne va, è un'altra piccola Line, Aline, a chiudere il dialogo con Marc e il cerchio di una storia senza tempo.
La curatrice, nella nota finale, individua un paio di citazioni tratte dall'intervista che Kristof ha rilasciato a Philippe Savary dieci anni fa, Ecrire c'est presque suicidaire (Scrivere è quasi un suicidio), per farsi guidare nel ripercorrere una storia unica di vita che si riflette in una scrittura minimalista e implacabile. Il tentativo di restituire nella parola scritta la violenta e drammatica cupezza della vita segnala Marie-Thérése Lathion si arena tuttavia nella certezza che un libro, per quanto triste, non potrà mai esserlo quanto la vita, come scritto in La terza menzogna. Ma questa volta nessuna catastrofe, "solo" un fallimento nichilista da cui si salvano i bambini con le loro cocciute verità: sono i tacchi a portare le ragazze, non viceversa, "e poi, credi che si possa scegliere? Scegliere chi si ama?".
Simona Munari
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