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recensione di Siti, W., L'Indice 1996, n. 5
Non si può che essere d'accordo col discorso che fa Giulio Ferroni in "Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura"; almeno quando illustra l'intimo rapporto che la letteratura ha sempre intrattenuto con la morte. Secondo Proust lo scrittore è una specie di Shéhérazade, che rimanda ogni notte la propria morte trovando sempre cose nuove da scrivere, ed è nello stesso tempo attanagliato dal terrore di non riuscire a finire quello che ha in mente. La speranza che l'opera ci sopravviva rinfocola l'ansia, e scrivere "da morti" allevia la pena del competere. Ferroni documenta il tema dei rapporti letteratura-morte fin dall'origine della tradizione occidentale, ma ne documenta anche un indubbio aumento di frequenza nell'Otto-Novecento, legato a una sensazione di tramonto della nostra civiltà; oggi poi il tema sarebbe diventato onnipervasivo e quasi ineludibile, perché il lento tramonto è diventato rapido tracollo.
I segnali sono troppi, resta soltanto l'incertezza sui modi. Ferroni nel suo libro chiama a raccolta tutti i nostri padri (parlo di noi che abbiamo intorno ai cinquant'anni), tutti quelli che ci hanno insegnato la lucida coscienza del ne-gativo, da Fortini ad Adorno, da Broch a Beckett. A vederceli tutti intorno così ci si riscalda il cuore: dunque abbiamo ragione, contro gli sciocchi che si ostinano ad agitarsi e a incrementare lo spessore degli inganni, contro i malvagi che approfittano del disorientamento per perseguire i propri interessi, contro chiunque voglia ridurre la tragedia a un progressivo rincretinimento. Questione di dignità. Eppure, dopo aver letto quel che Ferroni argomenta, resta un odore di aula scolastica, di lamento professorale che i giovani ascoltano con un orecchio solo; c'è (mi sembra) nel libro qualcosa che suona vuoto, uno spiffero che soffia sull'intelligenza e la rende inefficace. Forse una mancanza, come dire, di manualità: una renitenza a sporcarsi le mani sulla materia (il che non vuol dire necessariamente fare letteratura in proprio, ma aver coscienza dell'artigianalità del lavoro).
Come si forma un classico è una storia divertente: come si crea, a botte successive, quell'aura per cui regaliamo a certi testi un effetto di moltiplica, li rendiamo belli di tutti i nostri bisogni di bellezza, li commentiamo come sacre scritture. È un miscuglio di caso, di strategia, di destino e di giustizia: guerre che scoppiano, fortuna di campare abbastanza, tecniche della "presenza", coincidenza col genio della lingua e infine, ma soltanto infine, coerenza e portata strutturale del testo. Se è vero che quasi sempre alla fine il valore vince, è anche vero che nella composizione di quel valore entrano il perbenismo, il desiderio di comodità e di evasione di tutti noi quando siamo lettori.
Ferroni attribuisce alla lettura un potere che non capisco mica tanto: anche i testi maledetti, dice, quelli che stanno dalla parte del male e vogliono fare del male a chi legge, diventano un bene "nel momento in cui si offrono alla lettura". Perbacco. A me è sempre parso, al contrario, che una lettura corretta dovesse conservare proprio il ricordo del male: la "Divina Commedia" è anche una cattiva azione, pensiamo a come si devono essere sentiti i parenti di Brunetto Latini. Evidentemente il bene a cui allude Ferroni è la capacità di riflessione che la lentezza della lettura permette; ma se la lentezza è un prodotto della densità del testo, perché la stessa densità, e quindi lo stesso obbligo alla riflessione, non potrebbe esistere per esempio in un flusso velocissimo di immagini?
La verità è che Ferroni ha bisogno di assolvere i classici per farsene scudo contro l'invasione della nuova barbarie, multimediale e video-telematica. Ma il testo letterario è un buffone inaffidabile, una Jenny dei pirati, e tira calci a chi vuole arruolarlo nelle armate della "civiltà" - quella civiltà che spesso lo ha offeso e dalla quale è scappato: perché adesso in situazione d'emergenza dovrebbero fare la pace? La letteratura non è maestra di niente. Non è sacca di resistenza, ma miseria pronta a mettersi al servizio di qualsiasi padrone, eticamente indifferente e qualche volta scapestrata. Oltretutto, la fine della letteratura occidentale non sarà eroica come in "Fahrenheit 451": stiamo vincendo, noi prepotenti offriamo comodità - i barbari arriveranno già occidentalizzati e daranno luogo ai più vari meticciati espressivi. La parte più pericolosa del libro di Ferroni mi pare quella in cui si spinge a dare una ricetta per la letteratura da fare: una letteratura consapevole del suo ruolo di testimone della fine, e quindi si suppone con una faccia di circostanza...
Ferroni è preoccupato dall'avvento delle nuove tecniche, e della superficialità che sembrano portare con sé, mescolando inestricabilmente arte intrattenimento e informazione. Arriva a temere che "tutti i linguaggi artistici... tendano a chiudersi, a esaurirsi, ridotti a una condizione postuma". Timore infondato, quando gli uomini spariranno dalla terra l'arte la faranno i roditori. Certo, fare arte con le nuove tecniche costa sempre di più (proprio in termini di denaro) e il nuovo mecenate è la massa, per cui nasceranno nuove forme di arte encomiastica, dove all'elogio del principe si sostituirà il blandimento del mediocre; giovani critici, colpiti dalla divaricazione tra valore e successo, chiederanno in buona fede di rivedere l'estetica; il midcult continuerà a confondere la divulgazione con l'essenza. Sono fenomeni a cui bisognerà rispondere politicamente, opponendo il buono al cattivo e trovando i canali per farlo - questa è certo la parte più convincente del libro, quella della lotta per una minima decenza culturale. Ma non credo, come invece Ferroni implicitamente suggerisce, che dobbiamo stringerci al seno i nostri classici e sovraccaricarli di doveri.
Ogni volta che si invita la letteratura a una lotta, lei reagisce diventando retorica: una retorica delle rovine non sarebbe meno falsa di una sul sole dell'avvenire. L'arte continuerà a giocare e lo farà con tutti gli aggeggi che la tecnologia le fornirà; se il nostro cervello si disabituerà alla lentezza, lei si adeguerà a ritmi più veloci. L'ha già fatto, altre volte. La parola è davanti a una bella sfida, quella di gareggiare col violento "sembrar vero" delle immagini televisive, col continuo spostamento dei paletti della fiction; per conservare il quotidiano, la registrazione audiovisiva è meglio della letteratura.
E allora la letteratura, diventata finalmente arte minoritaria e liberata da un peso di leadership, potrà esplorare le proprie potenzialità di genere, facendo quello che l'audiovisivo non può fare: sporgersi, mettiamo, sugli enigmi del senso (i miti forse no, ma gli indovinelli devono esser fatti di parole), o orchestrare un sistema di registri linguistici di tale ricchezza da dare il mal di mare alle immagini che volessero seguirla. O ancora, e invece, contaminare tutti i generi spiazzando le attese...
Indignato dall'infantilismo della cultura di massa (si sa che i bambini sono eccitati dai suoni e dai colori molto prima di imparare a parlare e a scrivere), Ferroni affida alla letteratura un ruolo educativo: vecchia storia, vecchi malintesi. Meglio proporre ai ragazzi chi ha agito bene, piuttosto che chi ha ben scritto. Forse la letteratura bisognerebbe addirittura abolirla nelle scuole secondarie, e riservarla agli studi universitari specializzati; forse si potrebbe pensare a delle scuole professionali di letteratura, come esistono le accademie d'arte o i conservatori. Ferroni confessa alla fine del libro il rimpianto commovente di non riuscire a leggere abbastanza, mentre la letteratura qualche volta è (è stata, in momenti cruciali) smettere o rifiutarsi di leggere.
I pittori medievali dipingevano, sulle pareti delle chiese, particolari così piccoli e a tale altezza che nessuno sarebbe mai riuscito a vederli: ma li vedeva Dio. Quello è l'unico criterio: solo che il dio della letteratura non è il dio della morale, e sono quasi sicuro che Dio non è un professore.
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