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A gennaio di quest'anno, a Varsavia, a un convegno su Lingua e memoria, ho ascoltato una densa e partecipe comunicazione di Federica K. Clementi, dedicata alle Figure del materno nella letteratura italiana della Shoah. Pochi mesi dopo, nella collana "La memoria e l'immagine" di Avagliano, mi imbatto in un saggio di Giovanna De Angelis sulle donne e la Shoah. Certo, i gender studies, anche in Italia, non sono più una novità e il volume, non a caso, nasce dalla rielaborazione di una tesi di dottorato in "Storia delle scritture femminili". Ma, al di là della "ferita di genere", cui fa giustamente riferimento Anna Foa nella sensibile prefazione, qualcosa sta mutando, e non solo nei paesi anglosassoni, "tradizionalmente" all'avanguardia. Sempre all'inizio del 2007, già in La vendetta e il racconto di Pier Vincenzo Mengaldo, le testimonianze e riflessioni sulla Shoah sono sovente declinate al femminile, con un'insistita attenzione che non rientra in un percorso di genere, ma che fa comunque delle donne una parte importante del racconto critico, della sua valenza, anche della sua possibilità. Non mi sembra sia stato notato.
E la stessa De Angelis, del resto, non fa neanche in tempo a citarlo, il libro di Mengaldo, nella peraltro ricca e ordinata bibliografia. Eppure, certe pagine sui luoghi della carcerazione, dalla cella al campo, passando per i ghetti e altre tragiche anomalie del mondo libero, sembrano acquisire nuova linfa, e forza, proprio grazie alla "creatività" e "resistenza" femminili, già percorse in tal senso dal Todorov di Face à l'extreme (1991). Ed è significativo che per sottolineare tale capacità fisica e morale delle donne, il punto di partenza di Mengaldo, Edith Bruck, un po' nascosto in nota ma affiorante più volte nel testo, diventi il punto di arrivo della ricerca di De Angelis. Se il primo, in modo panoramico, prende in considerazione solo due titoli, Chi ti ama così (1959) e L'attrice (1995), la seconda, nell'ultima parte del suo volume, ci offre una sorta di micro-monografia in cui precipita quasi tutta l'opera di Edith Bruck e in cui trova concreto approdo quanto discusso nei tre capitoli precedenti, ricchi di teoria, storia e coordinate storiografiche e di altre scritture femminili, da Hannah Arendt a Etty Hillesum e Gertrud Kolmar.
Ma mentre Arendt è utilizzata soprattutto per i noti studi sul totalitarismo, nella parte iniziale del lavoro, Hillesum e Kolmar sono le chiavi d'accesso al tempo e allo spazio della persecuzione e a una paradossale, inedita ma formidabile libertà. Al di là del discorso di genere, Hillesum, ebrea olandese nata nel 1914 e scomparsa ad Auschwitz nel 1943, giunge a comunicare la stessa forza, la stessa libertà di Dietrich Bonhoeffer, che De Angelis evoca attraverso la ricostruzione di Affinati (Un teologo contro Hitler, 2002). Penso al Diario: "Si deve diventare un'altra volta così semplici e senza parole come il grano che cresce, o la pioggia che cade. Si deve semplicemente essere". E il "semplicemente essere" di Etty Hillesum travalica e evade la "natura ontologica del campo", finanche le sue "ragioni pratiche", e apre la strada a chi il campo lo racconterà, come "figura", in un'opera letteraria che è in tal senso fra le più coerenti e instancabili del nostro Novecento: quella, per l'appunto, di Edith Bruck.
Luciano Curreri
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