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Torino, anni settanta. Nel suo pied-à-terre viene ucciso l'architetto Garrone.
Mondadori torna al giallo ripubblicando i suoi classici in una nuova veste grafica.
Dopo tanti anni che ci abitava, lui sapeva ormai che la leggendaria monotonia della città era un'invenzione di osservatori superficiali, o piuttosto un mascheramento da cui l'ingenuo e l'impaziente si lasciavano ingannare come dal neutro pelame mimetico di un animale appiattato. Sotto quell'apparenza così ovvia, di carta messa in tavola, Torino era una città per intenditori.
Squallido personaggio che vive di espedienti ai margini della Torino bene, Garrone fa parte di una sorta di "teatrino privato" nel quale Anna Carla Dosio, la moglie di un ricco industriale, e Massimo Campi, giovane omosessuale della buona borghesia, stigmatizzano vizi, affettazioni e cattivo gusto dei loro conoscenti. Il commissario Santamaria indaga tra l'ipocrisia, le comiche velleità e i chiacchiericci della borghesia piemontese. Sullo sfondo una città in apparenza ordinata e precisa fino alla noia, ma che nasconde un cuore folle e malefico. Un romanzo paradossale e raffinato, complesso ma leggero, di fulminante ironia.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Lunghi portici austeri come crisalidi che cullano un pericolo, strade, viuzze e interni a tratteggiare un'antica storia cittadina, le ombre dei caratteri, la folla dei fastidi e dei riguardi, il mescolio di provenienze diverse, mentre il mondo della Torino bene respira ipocrita sul bel sorriso dell'architetto Garrone, "ratto limaccioso, industrioso, indomito fannullone". Lo sgocciolio di un ludico snobismo nella figura di Anna Carla, nelle ambigue esitazioni di Massimo, personaggio descritto con maestria impareggiabile: "Lei la mattina, Signor Campi, non legge il giornale? - No, preferisco non sapere". Un delitto narrato e vissuto quasi di lato, tanto è dirompente e centrale nelle pagine l'interezza dell'atmosfera che gli autori hanno innalzato, un mirabile affresco di occhiate e di sussurri, di pause e sottigliezze, il frivolo e il sinistro come gemelli di uno stesso parto, esito di un romanzo eccezionale. E poi Santamaria, il commissario venuto dal Sud, che tenta di quadrare un'essenza passabile in quel dedalo nodoso, complesso, arrivando pian piano a distinguere con fiuto magnifico le tre categorie dei potenti: "Quelli che ostentavano la loro potenza per schiacciarti; quelli che la nascondevano per schiacciarti con la loro affabilità; e quelli che non ti schiacciavano perché, dall'alto della loro potenza, nemmeno ti vedevano". Una Torino dipinta con mani soavi, viva e insieme rarefatta, una città dove "il fiume aveva il colore marcio della siccità" e dove "fra le stecche delle persiane entrava una luce da esecuzione". Ma impera su tutto, come una cupola di sovrana perfezione, un'ironia sopraffina, un gioco cifrato di formule e movenze, di levità distratta, di malignità divertita, lo spirito di un becchino eccentrico che lascia arieggiare la morte fra gli enormi ammassi del Balun. Maschere di un altro tempo perse in un contesto sfumato, e una lontana filastrocca a svelare l'intrigo. Definirlo un capolavoro è riduttivo. Di più, di più....Basta, anzi...Baast'n...
Sarebbe riduttivo definire questo libro un giallo; è piuttosto un romanzo di costume che prende di mira, con bonaria ironia, la società torinese, e soprattutto della cosiddetta Torino Bene, degli anni Settanta, con le sue reticenze, le sue idiosincrasie, e le sue piccole e grandi ipocrisie. Sullo sfondo, però, c’è davvero un omicidio da risolvere, per quanto peculiare, ed il commissario Santamaria dovrà affrontare la borghesia sabauda per trovare il colpevole.
Mai in un giallo letto fin ora, ho trovato tanta attenzione allo spessore dei personaggi piuttosto che all'analisi in sé del caso.
Recensioni
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