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Valentina Belgrado conferma la definizione di una propria voce, unica e facilmente riconoscibile in mezzo a tante altre. Il suo stile è quello ormai consolidato, caratterizzato da un lessico ricco e ricercato, con periodi ragionati che richiedono al lettore un’attenzione maggiore ma riescono a condensare in sé una gran quantità di informazioni. Dopotutto, non si può prescindere da un simile procedimento se, nel giro di meno di cinquanta pagine, si vuole provare a definire in maniera dettagliata il carattere che è al centro di un racconto. È evidente quanto l’autrice mostri grande interesse per le individualità particolari e voglia tratteggiarle minuziosamente come dando vita a un dialogo intimo tra il lettore e i suoi protagonisti, un po’ come accaduto con la Rachele de “Il gioco interrotto” - in cui il dialogo è tuttavia inquinato dalla visione distorta della protagonista - ma soprattutto con la Prisca di “Reborn”. In questo caso il nostro interlocutore è Manfredi, ragazzo affetto da una disforia di genere che ci racconta le sue vicende a ritroso, portando il lettore alle origini delle sue particolarità. È forse proprio nel modo in cui Manfredi parla di sé stesso che sta la maggiore forza e originalità del romanzo. Manfredi, nel suo modo di raccontare sé stesso e gli eventi, ci appare in tutta la sua disforia: si ha la nettissima impressione che a parlare sia un personaggio femminile, e sebbene vengano fornite sempre più indicazioni del contrario il lettore non riesce a mutare il suo sguardo e continua a vedere e “sentir parlare” una ragazza. La disforia del titolo si palesa dunque con grande efficacia, lasciandoci immedesimare nel protagonista e nella sua situazione: così com’è impossibile per Manfredi pensare a sé stessa in maniera diversa, così sarà anche per chi ne leggerà il racconto. Per concludere, dunque, sembra che Valentina Belgrado stia facendo di sé stessa una “scrittrice ritrattista”, che con la sua penna tratteggi personalità fuori del comune.
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