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Tre libri al prezzo di uno, verrebbe da dire. Mario Ricciardi, in realtà, ha scritto un libro solo, ma i temi sono almeno tre: il rapporto fra diritto naturale e diritto positivo in H.L.A Hart; la storia della nascita e dello sviluppo della "filosofia di Oxford", dall'aristotelismo tardottocentesco di John Cook Wilson fino ai più noti contributi di Ryle, Austin, Strawson, Berlin; il metodo di analisi dei concetti proprio di questa filosofia. I tre temi sarebbero degni di attenzione già di per sé. A qualcuno sarà infatti già venuta voglia di domandarsi, per esempio: che c'entra il diritto naturale con il pensiero di un giuspositivista come Hart? E la "filosofia di Oxford" non è quella dell'"analisi del linguaggio ordinario" che inizia dal "secondo Wittgenstein": che ci fanno Aristotele e i giuristi? Quale interesse filosofico si può inoltre mai trovare nella carriera di Herbert Hart, un giurista che per di più abbandonò relativamente giovane il mondo accademico per dedicarsi alla cura delle Opere di Bentham? Problemi seri e interessanti, come si vede. Ma, allora, perché affrontarli tutti insieme in un solo lavoro? Ricciardi offre una risposta chiara, anche se non semplice.
Di Herbert Hart si sa che è stato un teorico del diritto, non a torto considerato uno dei padri del giuspositivismo novecentesco. Ma non si è mai ben capito perché nel cuore di Il concetto di diritto, la sua opera più famosa, egli abbia posto un paragrafo intitolato Il contenuto minimo di diritto naturale. Chi ha affrontato il problema ha spesso risposto che il giurista ha voluto qui aprire una parentesi sociologica (filosoficamente irrilevante), per osservare, di passaggio, che i sistemi giuridici positivi condividono di fatto una serie di norme simili, che sarebbero da considerare pertanto "naturali" nel senso di presenti in modo costante nei vari ordinamenti. Negli ultimi due capitoli del suo libro, Ricciardi spiega perché le cose non stanno così. Certamente, non esiste per Hart un diritto naturale costituito da un insieme di regole in competizione con quelle giuridiche, poiché gli unici sistemi di regole che possono essere chiamati giuridici sono quelli degli ordinamenti positivi. Ma egli è persuaso che questi sistemi possano di volta in volta essere valutati sulla base di standard "naturali", ossia della loro maggiore o minore adeguatezza nel rispondere ad alcune esigenze fondamentali degli esseri umani in società. Il giuspositivista non deve insomma essere per forza agnostico sul piano del valore.
L'interpretazione di Ricciardi non suonerebbe probabilmente altrettanto convincente se le pagine nelle quali è esposta non fossero precedute e "preparate" da cinque densi capitoli, nei quali la ricostruzione storico-filosofica delle origini della "filosofia di Oxford" e del lavoro di alcuni suoi protagonisti si intreccia con la presentazione filosofica del metodo e dei contenuti propri di questa tradizione. Hart ha infatti applicato al diritto il medesimo metodo di chiarificazione concettuale che i colleghi di Oxford hanno adoperato in altri ambiti (si pensi a Il concetto di mente di Ryle o Due concetti di libertà di Berlin, lavori assonanti fin dal titolo con Il concetto di diritto), un metodo che deriva direttamente dall'eredità cookwilsoniana di Ryle o Austin, più che da Wittgenstein, personaggio ben conosciuto a Oxford ma mai davvero integrato nella "tradizione" filosofica locale. Chiarificare un concetto, per Hart e colleghi, non significa darne una definizione "riduttiva", trovare un'equivalenza con uno o più casi semplici; significa piuttosto ricostruire la rete degli usi possibili e legittimi di un insieme complesso di termini, legati da rapporti di vario genere. Che tale percorso spesso cominci con la codificazione di un caso "centrale" (nel caso del diritto, i sistemi giuridici positivi) non significa che esso debba esaurirsi con essa.
Non va infine dimenticato che la "filosofia di Oxford" non è stata soltanto una corrente metodologica. Essa ha avuto, fin dalle origini, anche i suoi contenuti caratteristici, come la costante riflessione sul realismo epistemologico e sul pluralismo dei valori. Ed è anche nell'acceso dibattito su questi contenuti che Hart ha formato la sua visione del diritto e della morale. Così, verso la fine del percorso, Ricciardi può spingersi ad affermare che le pagine sul "contenuto minimo di diritto naturale" di The Concept of Law, ben lungi dal costituire un'anomalia o una parentesi dell'esposizione di Hart, sono nientemeno che "il punto di arrivo" di "un lavoro collettivo nel campo della filosofia morale" dei "filosofi di Oxford". Il lettore può finalmente comprendere in che modo esse possano essere considerate parte costitutiva di un complesso tentativo di chiarificazione del concetto di diritto in perfetto stile filosofico oxoniense. E l'idea di scrivere un libro unico su questi temi appare pienamente giustificata. Filippo Santoni de Sio
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