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Anno edizione: 2019
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Incisi nella pietra con caratteri di fuoco, i comandamenti impongono all'uomo l'obbedienza e al tempo stesso esigono la libertà di trasgredirli: la legge divina ha senso solo se ammette la facoltà di non osservarla.
Nonostante siano il passo biblico piú conosciuto e citato al mondo, simbolo per eccellenza del monoteismo, i Dieci comandamenti hanno ancora molto da raccontare. Che cosa rappresentano oggi e che suggestioni nascono dalla loro (ri)lettura? La rivelazione della parola divina a Mosè sul Sinai è un dialogo fra terra e cielo ricco di chiaroscuri, fraintendimenti, emozioni che prendono il sopravvento, come quando, infuriato con il popolo d'Israele per il vitello d'oro, il profeta spezza le prime Tavole della Legge. Dall'analisi di Elena Loewenthal emerge che il principio di responsabilità – la consapevolezza che ogni azione o pensiero porta con sé delle conseguenze – è senz'altro la filigrana dei comandamenti. In questa breve sequenza di imperativi positivi o negativi si snodano la storia passata e le aspettative future. Ma malgrado una struttura apparentemente semplice, i due passi biblici che enunciano i comandamenti nascondono sottintesi, dubbi, difficoltà. Ed è proprio attraverso le aporie che si dipana la ricchezza di significati, che le infinite rifrazioni del testo si aprono alla lettura.Indice
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La lettura nasce dalla considerazione verso l’autrice (ottima traduttrice di romanzi che ho amato) e dalla curiosità di vedere la materia biblica in un’ottica diversa, legata alla tradizione ebraica. L’attenzione scrupolosa verso le parole e la loro valenza nei diversi contesti permea anche queste pagine, fin dall’evocazione dei primi passi della Genesi. La Torah ‘gettata’ sul monte Sinai è incisa sulla pietra, ma lascia la libertà dell’interpretazione, lo spazio tra le consonanti e ai margini del testo. Norma il rapporto tra Dio e l’uomo, lasciando al primo la passionalità del legame univoco e portando invece il secondo a superare l’istinto per gestire con responsabilità il vivere sociale. Mi ha sorpreso trovare già nel Levitico il comandamento ultimo (‘ama il prossimo tuo come te stesso’), di norma postulato come superamento del patto veterotestamentario nella formulazione ad opera di Gesù. In qualche modo è un’ulteriore riprova della radice comune tra cristianesimo ed ebraismo. La Legge enunciata sul Sinai continua a chiamare tutte le anime oltre il tempo e lo spazio, è parola divina che si trasmette incorporando l’imperfezione del ricevente umano, lasciando ripetizioni e aporie che chiedono la fatica feconda dell’interpretazione, cui questo saggio contribuisce meritoriamente.
Le citazioni bibliche e talmudiche presenti in questo saggio sono state tradotte dall’autrice con una particolare adesione morfologica e sintattica al testo originale: da ciò è derivata una lettura capace di prendere coraggiosamente le distanze dall’esegesi più tradizionale. Il primo capitolo si apre sottolineando le due differenti versioni di Genesi sulla creazione, per analizzare poi il dialogo tra Dio e Adamo nel giardino dell’Eden, fatto di richiami e nascondimenti, di delusioni e timori. Un dialogo tra il Signore e l’uomo che si ripropone nel corso di tutto il Pentateuco: spesso impositivo, conflittuale, intessuto di silenzi. Jahvè è “qol”, voce che parla e propone una comunicazione: Adamo, Abramo, Giacobbe, Mosè ascoltano. Impauriti, dubbiosi, confidenti o recalcitranti. Dopo aver ascoltato, questi uomini biblici rispondono, attuando una dinamica di confronto e di ricerca reciproca fatta di parole udite e scambiate, di obbedienza e disobbedienza, di rispetto e di ira: ovvero, di libertà. Sulla consegna del Decalogo a Mosè, Elena Loewenthal si sofferma enucleando alcune incongruenze, e molti interrogativi. Per due volte i dieci comandamenti vengono affidati al profeta, incisi su tavole di pietra. La prima redazione, distrutta da Mosè stesso in un impeto di rabbia, era stata incisa su due lastre dalla mano di Jahvè: di essa non rimane alcuna traccia. Il testo delle seconde tavole, recuperate in una successiva salita sul Sinai, è riportato nella Bibbia due volte, con poche variazioni, in Esodo 20, 2-17 e Deuteronomio 5, 6-21. Due sono anche i toponimi della montagna in cui è avvenuta la rivelazione: Sinai e Choreb. “Tutta la rivelazione è all’insegna della doppiezza”, postilla l’autrice del commento. L’imperfezione della Torah, con le sue aporie, si adatta all’imperfezione dell’uomo, richiedendogli un intervento interpretativo. “Il mondo è, dunque, l’irruzione dell’imperfezione dentro la perfezione, il tutto che è Dio”.
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