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Georges Blin, nato nel 1917, si è spento il 15 maggio scorso all'età di 97 anni. C'è chi, avendo seguito i suoi corsi al Collège de France, dove ha insegnato per oltre vent'anni, lo ricorda ancora con la voce tremolante. A 22 anni, terminata l'Ecole Normale di rue d'Ulm, già si interessa di filosofia traducendo Crisippo e Filone l'Ebreo. Pubblica libri su Baudelaire e Stendhal che fanno ancora testo e scrive di filosofia, da Kierkegaard a Camus, da Sartre a Jean Wahl, da Gabriel Marcel a Léon Brnscvicg. Il trattatello sul dolore pubblicato da Solfanelli nella collana Arethusa, risalente al 1944, affronta con molta padronanza il tema del soffrire fornendo una personale teoria speculativa e una grammatica del dolore. Soffrire non è tanto un atto passivo, secondo Blin, né inconsapevole, ma è un agire. Il dolore richiede da noi la coscienza e la libertà e, perciò, un "certo consenso". Se la sensazione si atttua in noi senza di noi, il dolore fa appello alla nostra soggettività. Il dolore non è dunque una sensazione ma una percezione, perché l'io, mentre patisce, è attivo. C'è sempre, da parte nostra, una certa condiscendenza al dolore in accordo col nostro «libero arbitrio» e che non deve essere confusa, puntualizza l'autore, con lo «spirito di tolleranza» chiamato in causa da Montaigne, perché quest'ultimo «presuppone un distacco generale e quasi un'assenza beffarda di sé a sé». Noi reagiamo in complicità con il dolore e siamo responsabili in una certa misura delle nostre sofferenze. Sul soffrire come experimentum crucis, dice bene il curatore, Blin scrive cose davvero interessanti. Il testo, che ha un timbro non molto distante dalle descrizioni fenomenologiche di Ricoeur, è tramato di chiose suggestive e di guizzi dell'ingegno. I due scritti di Patrick Labarthe e Silvia Peronaci apportano un valore aggiunto al testo di Blin, già ricco e denso di suo. Segue l'articolo molto pungente "L'incisione". Un libro inedito da consigliare e da leggere con attenzione.
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