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Anno edizione: 1991
Anno edizione: 2017
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Destra e sinistra (1929) appartiene al periodo in cui Roth più profondamente si calò, fino quasi a perdervisi, nella turbolenta, torbida realtà sociale della Repubblica di Weimar. Allora corteggiò molte «ombre sorte e formate dalle nebbie dell’epoca», anch’egli ombra fra le ombre, ma dotato di una chiaroveggenza che gli permetteva di dare una forma, nel momento stesso in cui si mostrava, all’emergere di una nuova realtà scomposta e venefica. Così questo romanzo è esempio perfetto di narrazione a caldo, dove diventano fantasmi narrativi quei personaggi estremi, accaparratori, terroristi, borghesi in crisi, cospiratori, sbandati, falliti, che fiorirono nella Germania pre-nazista. Su questo sfondo spicca uno dei personaggi più sorprendenti di Roth: quello del «mongolo»-ebreo Nikolaj Brandeis che conquista tutto quel che può nell’Occidente disfatto e poi lo abbandona, sparendo «nel mare dell’ignoto».
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Il titolo può trarre in inganno perché si è tentati di attribuirgli la valenza politica che non ha. Nel romanzo Roth sviluppa invece una critica sociale spietata e tesa a smascherare l’ipocrisia della società del primo dopoguerra. I due fratelli Bernheim, cresciuti nel lusso e nel benessere prima della guerra, alla morte del padre devono affrontare la vita e il futuro con le loro forze. Massimo punteggio per un piccolo capolavoro di Roth che ci accompagna a cavallo fra le due guerre Mondiali in una Germania che, uscita sconfitta, cerca il riscatto fra la grandezza del "mondo di ieri" e il prologo al disastro totale che arriverà a breve grazie all'imbianchino austriaco. Figure descritte benissimo, atmosfere che si toccano con mano, pensieri che rimando al migliore Zweig e Schnitzler. Ottima lettura.
Recensioni
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recensione di Cerrato, O., L'Indice 1992, n. 6
Inutilmente il lettore cercherà di identificare la "destra" e la "sinistra" con l'uno o l'altro dei personaggi del romanzo; il titolo non allude ad opposti schieramenti politici, quanto piuttosto al generale senso di disorientamento succeduto al crollo del vecchio ordine mitteleuropeo. Scritto nel 1929, il libro rappresenta con pochi altri un'eccezione nella narrativa di Joseph Roth, quasi interamente concentrata sul motivo ebraico e sulla nostalgica apologia dell'impero absburgico.
Qui l'autore si cala nella realtà del suo tempo e ci offre un'attenta analisi della società della repubblica di Weimar, riflessa nella decadenza di una ricca famiglia berlinese.
Nell'intenzione originaria dell'autore il libro doveva intitolarsi "I fratelli più giovani" e avere come protagonista principale Theodor, l'ultimo rampollo della famiglia Bernheim, esponente di quella generazione che, troppo giovane per combattere, coltivava pericolose idee nazionaliste e "voleva ad ogni costo lasciare il segno ". In realtà Theodor scivola presto in secondo piano, offuscato dal fratello maggiore, Paul, erede troppo ambizioso di un patrimonio in sfacelo, affannato arrivista prigioniero del conformismo. Al suo carattere insicuro si contrappone la maestosa figura di Brandeis, l'ebreo orientale "lontano dalla quotidianità europea " che in pochi anni diventa dal nulla il re del capitalismo berlinese e poi improvisamente abbandona tutta la ricchezza accumulata per andarsene, senza sapere dove. Con lucidità egli sa riconoscere i pericoli della schiavitù del potere: "è il direttore generale ad appartenere alla sua targhetta,... alla sua posizione, al timore che incute, e non viceversa!" Di fatto questa società delle apparenze finisce per annientare il soggetto, come nel caso dell'industriale Enders, che ha imparato lentamente a rinnegare la sua indole e a scegliere sempre ciò che fa a pugni con la sua intelligenza e i suoi sensi per essere sicuro di avere gusti moderni. Anche Paul Bernheim, al quale un matrimonio d'interesse (e l'aiuto dello stesso Brandeis!) hanno permesso di risalire la scala sociale, si accorge alla fine di essere un vinto perchè non ha potere sulla sua volontà, non è più in grado - come lo era suo padre - di scegliere la felicità al posto del denaro e della posizione. Perciò sa di meritare il disprezzo che Brandeis apertamente gli dichiara nell'accomiatarsi: "Non ci vuole affatto vigore per conquistare qualcosa. Tutto è fradicio e le si arrende. Ma lasciare, saper lasciare - è questo che conta." Certamente l'autore rivolge anche a se stesso questa critica: anche a lui manca il coraggio di affrontare il nuovo, e si aggrappa disperatamente al "mondo di ieri". Pur ammirando la forte personalità di Brandeis, non può condividerne l'anarchismo individualista, e preferisce restare il debole ma umanissimo "scrittore per tutti". Così la conclusione del romanzo non presenta vie d'uscita; nulla attenua il pessimismo in cui si separano i due protagonisti. " Il mondo continuerà a seguire il suo vecchio, noioso corso" pensa Brandeis, e il "tradizionale dolce segreto" della signora Bernheim suona come una beffarda conferma di questa monotonia.
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