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Se volessimo un libro per fare bei sogni, ne basterebbe una pagina. Anche non scritta per intero, con margini ampi, con poche parole per rigo, e un mare di spazi bianchi a fare da contorno a idee fluttuanti dentro creste spumose di nomi d’oggetti (zolla/uovo/rovo), frammenti di ricordi (leggevo haiku e tanka), lembi di emozioni (sono spettatore di un blackout). Una raccolta di versi come questa è, anzitutto, un inventario dell’anima compilato giorno per giorno con l’intento di lasciarlo eternamente a metà. Una storia che non conosce una fine rimane infatti per sempre possibile, aperta ai tanti significati che, chi la racconta, continuerà speranzoso ad attendere. Le fa da cornice uno splendido vuoto universale, trasparente come l’essenzialità del contrasto tra il buio e la luce, tra la realtà e la visione. Laddove i due livelli coesistono, senza coprirsi l’un altro, ogni immagine non può che avere l’eterea tinta dell’aria, che trasforma l’ordinaria evanescenza in un’esclusiva bellezza (come un fantasma/sono filato in cucina/ a riempirmi le tazze/di camomille solubili). In questo modo, il sentire del singolo si converte in una scia stellare, in grado di intersecare le orbite celesti di altri esseri di passaggio, colti nel loro divenire presente (l’io per il quale “Todo cambia”), passato (la nonna di “Radio Maria”, la collega di “Bandiera bianca”) o futuro (gli alunni che si confessano nella “Vita da prof”). Per Piergiorgio Viti il tempo trascorre depositando innumerevoli fogli volanti nelle tasche degli abiti, in mezzo ai cuscini, fra i sedili dell’auto. Sono le piccole cose nascoste che diventano preziose quando ci accorgiamo di averle dimenticate. Allora le recuperiamo, con delicatezza, avvolgendole nell’involucro di un pensiero appena scartato. Un’operazione che un vero poeta compie con la fremente solennità di una religione segreta, una sacralità che il vento, per caso, mentre nessuno lo vede, soffia su tutto ciò che egli ama.
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